Salvador Dalì – torre Galatea

Scritto da F. Bertoglio

Il 25 Ott 2014

Salvador Dalì – torre Galatea

Ci sono opere che sono un viaggio nell’anima dell’artista che si mette a nudo mostrandoci tutta la sua grandezza e miseria. È il caso del museo teatro “Torre Galatea” di Salvador Dalì, collocata nella cornice catalana di Figueres. Sin dalla dedica opera d’amore per la donna amata e ora perduta, Torre Galatea è un mausoleo, a ricordo perenne di quell’amore che ha nutrito l’artista e che costituisce il vertice e la cifra dell’intera sua opera.

L’esterno, contesto di citazioni neoclassiche e cristiane sviluppa un’antica torre medievale ingentilita da un intonaco liscio e dipinto in vivace color vino su cui spiccano centinaia di pagnotte applicate alle pareti come bottoni dorati di un vestito vescovile. Le mura ne sono costellate per l’intera lunghezza perimetrale, quasi che alle mortali feritoie di un castello medievale l’artista abbia voluto sostituire il simbolo più immediato che la tradizione mediterranea abbia per dire benedizione e condivisione. Un nuovo salvatore, sacerdote di un culto artistico, si offre all’umanità in visita a Figueres in cerca di bellezza. Una bellezza che salverà il mondo e l’arte stessa dalla loro mediocrità, secondo lo stesso Dalì. Un culto personale degno di un imperatore romano, di un faraone, ora viene coniugato alla prima persona singolare, attribuendolo alla figura eccentrica e libera dell’artista, secondo la celebre affermazione di Nietszche:

“L’arte e nient’altro che l’arte! Essa è la grande creatrice delle possibilità di vivere, la grande seduttrice della vita, il grande stimolante per vivere. L’arte come l’unica forza antagonista superiore, contro ogni volontà di rinnegare la vita, come l’elemento anticristiano, antibuddhistico, antinichilistico per eccellenza. L’arte come redenzione dell’uomo della conoscenza: di colui che scorge il carattere spaventoso e problematico dell’esistenza, anzi lo vuole scorgere, di colui che ha la conoscenza tragica. L’arte come la redenzione dell’uomo d’azione: di colui che non solo scorge e vuole scorgere il carattere spaventoso e problematico dell’esistenza, ma che lo vive, e vuole viverlo, dell’uomo tragico e bellicoso, dell’eroe. L’arte come la redenzione del sofferente: come la via verso condizioni nelle quali al sofferenza è voluta, trasfigurata, divinizzata, in cui la sofferenza è una forma della grande delizia.”

Non senza amore, rappresentato da enormi uova, ancora chiuse. Il perimetro dell’edificio ne è costellato, come se l’artista dichiarasse così il nutrimento amoroso che ha ricevuto sin dal seno materno. Prima ancora di nascere ho amato e sono stato amato, pare dirci. Non stupisce che ora la sua intera opera sia dedicata a Gala, la donna amata. Una Gala atomica, surrealistica, onirica, stupenda e meravigliosa come una dea, una regina dei cieli assisa sul trono. Non mancano decine e decine di figure dorate e benedicenti sia all’interno che all’esterno dell’opera. Idoli pagani che benedicono tutt’attorno. Per colui che ama non vi sono distinzioni incolmabili tra cristianesimo e paganesimo. Prima di ogni distinzione, infatti, c’è Amore, che in ogni istante celebriamo nell’arte.

Ma che tipo d’amore viene evocato qui? Chi è l’uomo Salvador Dalì? Probabilmente un ragazzaccio, un delinquente, un pessimo tipo d’uomo, come ebbe a dire di lui George Orwell. Un Polifemo, dunque, se lei è Galatea. I nomi significano pur sempre qualcosa. E Salvador, il nuovo salvatore dell’arte e del mondo, ama Galatea e ne è meravigliosamente corrisposto. A tal punto da dedicarle l’opera che riassume il suo intero percorso artistico: Torre Galatea, appunto. Nomi letterari, per un uomo che dovette amaramente sostituire – nell’intendimento dei genitori – il fratello prematuramente morto, di cui infatti porta il nome. Ma anche per una donna il cui nome ha un antico significato dovuto a un celebre racconto di Teocrito: il Polifemo, appunto. In esso si racconta del mostro innamorato come un bambino della giovane e bella ninfetta Galatea, che lo sdegna, ovviamente. Due tipi umani opposti. Lei tanto bella fuori, quanto insipida dentro. Lui tanto orrendo fuori quanto deliziosamente sensibile d’animo. Che sfortuna essere nati male, malfatti! Perché il genio di Teocrito rovescia come un guanto l’estetica omerica: l’apparenza inganna, tanto è vero che il mostro che ci racconta lo sguardo ingenuo dell’Odissea è, invece, un vero uomo sotto la scorza teocritea. Viceversa, la giovane pur bella Galatea si rivela fredda e distante, aliena ai sentimenti umani. Entrambi, però, incapaci di vedere dietro la scorza, sono destinati a non incontrarsi mai. Quanto è difficile vedere oltre la carrozzeria! Impossibile, addirittura, come ci ricorda il suicidio di Marilyn Monroe. Ma al Polifemo di Teocrito, sublime poeta greco, rimane la consolazione – anche leopardiana – dell’arte, dell’amore poetico, la più grande delle illusioni, la migliore delle medicine per chi è nato male come lui. Per questo la storia si vendica di Galatea, consegnandoci l’orrenda scorza del mostro mentre oblia del tutto la ninfetta.

Che Salvador dovesse essersi sentito un mostro è assai probabile. Anche un mascalzone della peggior risma, come testimonia il centro gravitazionale dell’intera struttura architettonica: la corte centrale, semicircolare e spoglia come l’antro del mostro. Un Al Capone scapestrato e selvaggio che si ribella al suo destino: Polifemo ha infine amato la sua Galatea e ora la spinge in cielo per il suo ultimo viaggio a bordo della barca con cui lui e la ninfa percorrevano felici il Mediterraneo. Una macchina da bandito, un tempo appartenuta allo stesso Capone, troneggia nel giardino della corte. Una fontana surrealista regge dal pianoterra la barca che traghetta l’anima di Gala nell’al di là, come avveniva agli antichi sovrani prima di essere seppelliti nella Valle dei Re. Sarà pure un mascalzone, il nostro Dalì, ma quanto ha amato la sua Gala atomica! Fino a divinizzarla, celebrandola come una dea e così celebrando se stesso. Ascendendo ai cieli con lei. Una Sistina personale. Senza un Dio, per due dèi.

Salvador Dalì – torre Galatea in sintesi

Come si vede, la commuovente storia di Torre Galatea ripiega il cristianesimo verso il mondo pagano devoto alla natura. Il dio unico sfuma nella narcisistica celebrazione di sé sempre possibile a qualsiasi uomo che voglia conoscere se stesso. Così non stupisce la presenza, in una sala laterale, di una teca ove l’artista ha posto le sue personali tavole della legge: dieci parole di Salvador Dalì per essere felici. Una borsa ventiquattro ore di metallo mostra il suo interno sfavillante di luci. Le pietrose tavole di Dio si traducono in un duplice specchio che mostra allo spettatore l’immagine di sé attraverso l’intrico di rami di un albero della vita dorato. Il peccato di Adamo è consapevolmente consumato: Dio? Sei tu, che osservi lo specchio. In tal modo, la religione è mantenuta e traslata nell’antropologia, come attesta la presenza ossessiva degli elementi tipici che la caratterizzano: esaltazione dell’eletto, deificazione, culto dei morti, tavole della legge, albero della vita, redenzione e salvezza. Dalì non la nega, bensì la trasforma in una continua citazione artistica, come se la vera religione, per lui non sia altro che l’arte e l’artista il sacerdote di un culto vero perché capace di riassumere in sé anche quello religioso, incarnandolo nell’autoaffermazione dell’uomo. Commuove anche il finale realistico dell’artista: perduta la sua amata Gala si consuma rapidamente, fino a morire in carrozzella privo di quella forza che l’ha sinora sostenuto e attraverso la quale ha divinizzato se stesso nel tentativo impossibile di rimuovere del tutto la propria fragilità umana.

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