Qohelet – Abele degli Abeli
Per ben 85 volte Qohelet introduce i suoi detti in prima persona, rivelando una propensione autobiografica sorprendente in un testo che dovrebbe dire Dio. Tuttavia, nulla è più incerto dell’identità dell’autore di questo singolare libretto e del suo contenuto. Le sue stesse ossessive ripetizioni espresse in formule modulari sono formulate in modo tale da risultare solitamente oscure e allusive al di là di una loro comprensione immediata. Questo ne fa un testo di alto contenuto simbolico particolarmente prezioso per il lavoro d’interpretazione. Tuttavia, non è un testo facile e se osiamo introdurlo al primo anno di Liceo è solo per via di una certa nostra propensione all’azzardo, a mirare in alto, piuttosto che concedere una facile via d’accesso a Dio. Se la via è larga, infatti, è più facile perdersi e fallire la meta. Quanto più il sentiero è stretto tanto più appare evidente la necessità di affrontare uno iato, un fosso, da superare d’un balzo. Non abbiamo bisogno di libri che ci piacciano, quanto non abbiamo bisogno di persone che ci assecondino. Nella lettura come in amore la via migliore è la più impervia e ostile, perché i libri che ci piacciono potremmo scriverceli tranquillamente noi, e di persone che accondiscendono al nostro carattere, a rigore non sapremmo che farcene. Abbiamo invece bisogno di persone e di libri che ci turbino come lame per penetrare nel ghiaccio che avvolge la nostra personalità e c’impedisce di sciogliere il cuore alla chiara luce del sole. Così, ben venga l’incontro con l’io di Qohelet, se questo dovesse scaldarci il cuore con la sua ruvida intelligenza.
Ora, Qohelet è un nome che indica un uomo preciso, benché la traduzione latina volesse vedervi un verbo derivato dalla radice ebraica qhl: convocare, radunare l’assemblea. Perciò escludiamo tranquillamente la traduzione classica di Ecclesiaste e adottiamo questo nome proprio che solo qui risuona in tutta la Bibbia avendo l’avvertenza di comprendere che comunque si tratta di uno pseudonimo che intrattiene una relazione stretta con una qualche assemblea. Certo, visto il carattere elitario dell’autore parrebbe più un’ironia che una precisa indicazione di colui che raduni la folla dei fedeli. Se è assemblea, dev’essere molto sottile la fila di quelli che la compongono. Pare più un capannello al crocicchio delle strade, alla moda dei filosofi peripatetici, più che la folla dei fedeli nell’assemblea liturgica. Diciamo allora di intravvedere in Qohelet un maestro in piedi che ammaestra una piccola folla di allievi. Di certo, infatti, il finale allude ai giovani figli d’Israele così bisognosi d’intravvedere una via percorribile nell’aperto mare della vita.
Si tratta in ogni caso di un autore complesso, che fa onore alla Bibbia con quel suo periodare secco e lo stile controllato, l’ironico distacco, mentre pare attanagliato da un abissale vuoto interiore che ne rivela la sottile disperazione. Eppure, il vuoto appare qualità teologica, virtù della fede in lui, intellettuale colto e aristocratico che non disdegna il dialetto aramaico, ibridando l’ebraico come fosse un raffinato un po’ snob la cui formazione spazia anche a Occidente, nell’ellenismo popolare del III secolo a. C. che a Gerusalemme aveva il volto morbido ma reale dei Tolomei d’Egitto. Deve ancora avvenire la brutale normalizzazione ellenistica che dominerà Israele nel II secolo a. C. per mano dei Seleucidi. In questo quadro storico, decisamente più aperto e rispettoso, il fermento maggiore di novità era rappresentato dalla nuova filosofia popolare che innervava il dibattito corrente sin nelle piazze, fuggendo i luoghi storici del sapere e della cultura, intessendo le conversazioni di popolo, alle bancarelle dei mercati, offrendosi a tutti mentre snobbava gli atelier degli specialisti del sapere di professione. A tal punto il filosofo popolare frequentava le piazze che appare molto probabile che il nostro testo sia originariamente stato scritto in forma d’appunti in dialetto.
Ricordiamo a modo d’elenco ossuto le quattro radici scolastiche che rappresentavano a quel tempo il sapere ellenistico: lo stoicismo, di Zenone (536-264 a. C.) la cui atarassia tanto doveva al celebre Eraclito. L’epicureismo, che prende nome da Epicuro (341-270 a. C.) il cui equilibrio ha avuto un suo grande cantore latino nel De rerum natura di Lucrezio. Il movimento cinico la cui diatriba è debitrice del celeberrimo Diogene di Sinope (413-327 a. C.) e infine gli scettici fondati da Pirrone (365-270 a. C.) che con l’epoché del sapiente hanno contribuito in modo decisivo alla sospensione del giudizio.
Tante sono, tuttavia, anche le consonanze col mondo ebraico. Prima fra tutte, naturalmente, quella col libro di Giobbe a cui l’accomuna l’incertezza della verità ma non la freddezza del dettato. Ma anche i Salmi, come vedremo, coltivano profonde assonanze con Qohelet. Se seguiamo il filone dell’interpretazione pessimistica dell’Autore certamente incontriamo i salmi 39, 88 e 90. Malinconici, supplichevoli, pessimistici, ne citano persino il leit-motiv: quel termine hebel, tanto assonante ad Abele, che da sempre ne contrassegna i pensieri. In effetti il mondo ebraico e segnatamente i rabbini della Grande Assemblea non hanno mai dubitato che Qohelet, come anche Proverbi e il sublime Cantico appartenessero al canone biblico. Discussero a lungo però dove collocarli, finché si risolsero a Jamnia per la loro collocazione attuale. La stessa Misnah, nel trattato Judajim (sulla purità delle mani) accoglie certamente il libro nel canone riconoscendo definitivamente che il Cantico e Qohelet appartengono entrambi alle Meghillot, ovvero ai cinque rotoli della lettura sinagogale. Singolarmente, a Qohelet era riservata la lettura durante la festa gioiosa delle Sukkot, le Capanne, in autunno, forse anche per i ripetuti appelli al godimento delle gioie quotidiane disseminati nel testo. Tuttavia, l’attenzione a Qohelet durava da tempo, tanto che gli scritti apocrifi del giudaismo paiono appoggiarne le tesi sin dal III secolo a. C. e prosegue in seno al mondo ebraico attraverso tutto il medioevo fino ai giorni nostri: pensiamo certamente ad autori come F. Kafka, J. Roth o I. B. Singer, per esempio, che così profondamente riflettono nelle loro opere lo stile caustico e amaro di Qohelet.
Singolarmente, il cristianesimo vedrà in Qohelet soprattutto una guida ascetica nella fuga mundi, sulla scia del grande traduttore della Bibbia San Gerolamo. Per lui il libro voleva «provocare il disprezzo di questo mondo e [spronava] a considerare come nulla tutto ciò che vedesse nel mondo». In tal modo, Gerolamo tendeva ad assegnare a Qohelet una funzione ascetica perché i monaci, attraverso i suo consigli, si spogliassero dell’uomo mondano e gaudente. Sulla stessa linea Agostino salutava il suo passato spericolato con le parole di Qohelet: il passato sta alle spalle del santo perché ora c’è il «lume dei suoi occhi occulti», che non è il sole, come per Qo 11,7 bensì il Signore. La stessa Imitazione di Cristo si apre con la citazione del primo versetto di Qohelet nella traduzione di Girolamo: «Vanità delle vanità, tutto è vanità». E prosegue con un florilegio di citazioni dal testo. È con Lutero (Prefazione all’Ecclesiale di Salomone, 1524 d. C.) che l’interpretazione di Girolamo viene profondamente modificata restituendole il significato di libro delle consolazioni che probabilmente aveva originariamente presso la Sinagoga. Per questa via il libro torna a inquietare il cristianesimo per la sua complessità fino a costituire anch’esso un tassello indispensabile per la comprensione adeguata del cristianesimo e perciò, ovviamente, della figura di Gesù che ne costituisce il fulcro.
Possiamo riconoscere la mano di Qohelet in molti tra i grandi della letteratura mondiale. Non c’è dubbio che figure come il russo Tolstoj o l’italiano Pirandello, lo stesso Dante e Leopardi (che lo leggeva già a dodici anni in lingua originale) o il contemporaneo Montale citino Qohelet ben al di là della lettera. E l’elenco potrebbe essere assai più lungo e spaziare ben al di là dei confini mediterranei attraverso la cultura mitteleuropea e anglosassone. Ciò a dire la straordinaria abilità del nostro autore e la sua comprensibile aspirazione a comparire nei capolavori assoluti della letteratura mondiale.
Cosa fa, dunque, di questo testo un libro così prezioso? Probabilmente la sua enigmaticità, vale a dire la sua ricchezza di senso. Sicuramente è difficile racchiudere Qohelet in una sola ricetta, una sola struttura letteraria, in un solo progetto. Se è forse possibile riconoscere nel testo un progetto compiuto non può essere sottovalutato quel suo particolare modo impressionistico di dipingere la pagina procedendo per piccole pennellate che tuttavia non sono semplicemente una raccolta di detti, ma l’espressione di una straordinaria libertà interiore che corrisponde all’impossibilità di pianificare, organizzare, ordinare, la massa magmatica della vita imprigionandola in un solo sguardo che tutto abbracci. La complessità impressionista di Qohelet è già un progetto, ma tale per cui è impossibile comporlo riducendolo a una semplice forma iconica. Per questo lo scegliamo come avvio al nostro corso di religione, nella convinzione che esso esprima bene la peculiarità della nostra situazione esistenziale contemporanea, così fluida e articolata, dai cofani fluttuanti e indecisi, sebbene propria di una civiltà della tecnica e della scienza che ha fatto dell’organizzazione e del dominio dell’uomo sulla natura e su di sé il proprio contrassegno.
Schematicamente, tre sono i filoni interpretativi che si cimentano con la lettura di questo testo: chi interpreta Qohelet in senso scettico e disperato, chi ritiene sia il classico esponente dell’aurea mediocritas, chi, infine, lo considera un cantore della gioia possibile in seno all’amarezza del vivere.
Il filo conduttore di chi svolge una lettura scettica di Qohelet, fa di lui un sapiente pessimista e disincantato, aulico ma asciutto testimone della crisi dei valori sapienziali tradizionali attestati nelle letterature antiche della mezzaluna fertile. Sotto questo profilo, Qohelet sarebbe un intellettuale solitario ed eccentrico, esponente di una sapienza rappresentata nella sua forma più razionalistica. In virtù del suo intellettualismo, Qohelet avrebbe indagato l’esperienza umana sottoponendola al vaglio di una critica che non ha più alcun rapporto con la fede. Perciò il suo esito negativo, l’amarezza invincibile, la vita ridotta a ossatura priva di senso, vana e fumosa. Per questa via, Qohelet appare incapace di dialogare col mondo che lo circonda, divenendogli estraneo quanto il mondo gli appare muto. In questo modo, l’unica fede possibile in Dio è quella che considera impenetrabile ogni agire divino e perciò inutile e vana qualsiasi ricerca di senso, che appare dunque un’illusione consolatoria e un’ipocrisia. Un mistero assoluto avvolge il mondo e coinvolge persino Dio, il cui progetto e intendimento deve rimanere libero, insondabile e indecifrabile all’uomo. In questo senso, Qohelet sarebbe come una sentinella posta alla frontiera che vigili perché la sapienza umana non sconfini dal proprio territorio perdendosi nell’illusione di razionalizzare la sorprendente libertà del Creatore e della creatura.
Quanto al secondo filone interpretativo, orientato a ritenere Qohelet esponente di spicco della filosofia dell’aurea mediocritas, della via di mezzo, mette conto di esplorare il realismo del libro (cfr. Qo 7,16-18). Sullo sfondo, dobbiamo ritenere le discussioni in cui il giudaismo del tempo di dibatteva nello scontro che opponeva il rigorismo legale protofarisaico e lo scetticismo protosadduceo nei confronti di una osservanza automatica alla Legge di Dio. L’ironia di Qohelet si rivolgerebbe ad entrambe le posizioni opponendo ad esse una visione morale intermedia, anche se non opportunistica e cerchiobottista. In ogni caso, giacché ogni automatismo è escluso, l’unica etica possibile è relativa alla situazione vitale in cui l’uomo agisce, seppur nel quadro di un generale timor di Dio. Detto diversamente, l’etica di Qohelet opera una demitizzazione degli opposti, ridimensionandone gli estremi per ricondurli ai limiti strutturali in cui l’uomo agisce: l’agire, infatti, poggia più sulla sapienza popolare pratica che sui trattati e le dottrine dei saggi.
Quanto al terzo filone, teso a dimostrare una linea interpretativa che s’è fatta strada alla fine degli anni ’70 del ‘900, esprime un’implicazione implicita nella tradizione sinagogale giudaica che aveva collocato la lettura del nostro testo durante la gioiosa festa autunnale delle Capanne. L’interpretazione, dunque, si svolge a partire dall’uso del testo in seno all’assemblea liturgica che l’ha recepito e fatto proprio nel canone, cogliendo in Qohelet il tentativo di elaborare una sorta di imperativo categorico della gioia di vivere attestata nei piaceri della vita, sia fisica che mentale, come nella contemplazione incantata della natura e nei piaceri dell’amore. Così, se il libro si apre lamentando il vuoto di ogni realtà e azione umana, si chiude però cantando il godimento nei limiti del possibile. Allo stesso modo, se la sapienza appare sconfitta a fronte del proprio compito di totalizzare la realtà sotto un sapere assoluto, è bensì vero, però, che è meglio occhi che vedono piuttosto che vaghi desideri.
Come si vede, i tre filoni interpretativi seguono vie diverse, ma soprattutto direzioni diverse del tempo. La prima concepisce la lettura come scavo in direzione del passato e perciò sottolinea il valore di rottura del testo con le dottrine tradizionali della sapienza. La seconda contestualizza il testo nel proprio vissuto collocandolo nel mezzo di una diatriba presente nell’ambiente giudaico in cui opera l’autore. La terza, infine, colloca la lettura del testo a partire dall’uso liturgico che la comunità ne ha fatto. Pare banale osservarlo, ma una buona lettura dovrebbe tener conto probabilmente di tutte le dimensioni storiche del testo imparando da ciascuna di esse a cogliere accenti e colori che altrimenti andrebbero perduti.
Noi vogliamo sottolineare il quadro in cui il testo inserisce l’opera. Si tratta della letteratura sapienziale biblica e in particolare del rapporto tra sapienza e vita. Da un lato, sebbene la Sapienza non si preghi, però la sia ama, benché paia soltanto un vocabolo. Dall’altro, la Sapienza rimane inafferrabile, sottraendosi all’immagine che noi stessi creiamo di lei. A tal punto essa è reale da presentarsi come sposa, perfetta a tal punto che il saggio può sentirsi chiamato a vivere senza una donna, a tal punto deliziosa da colmarlo di gioia. Sposare la sapienza: era questo ciò che i saggi si proponevano maledettamente sul serio. E non per diffidenza o misoginia, bensì perché essa colma di beni assai più che qualsiasi altra felicità. Anzi, essa le riassume tutte, e non idealisticamente. Tant’è che il libro della Sapienza enumera tutti i beni che essa dona, omettendo però la moglie e i figli, perché la Sapienza è già Sposa perfetta la cui convivenza lo rallegra ogni giorno senza amarezza. La donna sterile, l’eunuco, il giovane senza figli possono essere pienamente felici, e il loro progetto di vita è più ragionato che fortuito. Nè si tratta di abbracciare una condizione diversa da quella matrimoniale. Si tratta semplicemente di godere appieno della compagnia che arricchisce a tal punto da cogliere insieme privazione e promessa. Quella della Sapienza, infatti, non è la compagnia di una metafora. A tal punto che può essere Sposa di coloro che non generano, presso il letto del malato, del morente, del lebbroso, dell’assetato e di tutti gli ultimi che abitano la terra. I saggi non hanno parlato per lungo tempo della propria fine, così come, alzatisi in volo gli ibis della sapienza cantano a lungo e poi vanno a morire nella quiete sottratta ai nostri occhi, senza che noi se ne serbi il ricordo, senza aver cantato la morte. E questo silenzio composto e pudico è bene che sia, ha del positivo. Il letto funebre non è l’inizio e se lo è, il saggio deve collocare l’inizio a ritroso ripartendo dalla sorgente stessa e dalla sua incontaminata promessa. Ma quando la morte cessa di dissimulare se stessa e si manifesta, allora la Sapienza si cela, ritrosa, stentando a farsi riconoscere, come Sposa pudica.
Che il libro di Qohelet sia stato incluso nel canone delle scritture può sorprendere il lettore giovane e inesperto come anche il più smaliziato degli interpreti. E tuttavia, così è, grazie al diritto all’indipendenza critica che la Scrittura garantisce ai saggi. Ed è una lezione preziosa da imparare perché attesta la libertà del pensatore in seno alla fede stessa perché credere non può significare sacrificare il proprio intelletto fuggendo la realtà. Così Qohelet può elaborare una scrittura che né Abramo, né il tempio, né l’Esodo possono scalfire o intaccano in alcun modo perché parla a nome della morte, della sapienza del negativo e dell’ultimo. Così, se il libro della Sapienza riporta Adamo nel giardino, Qohelet parla in luogo di Adamo quando il giardino è perduto per sempre. Quando il cerchio della vita si chiude e appare chiaro che la polvere torna alla polvere la vita appare un cerchio chiuso senza fessure. Eppure, è proprio questo insegnamento che rende la fine migliore dell’inizio, in modo tale che la casa dei morti sia più preziosa del banchetto nuziale (Qo 7,2). Tuttavia, per lo stesso motivo, la Sapienza non è migliore della follia giacché esprimono entrambe lo stesso cerchio concluso, per il singolo come per il popolo. Tale intuizione è una medicina giacché dissolve l’illusione di qualsiasi rifugio in un mondo che eviti il cerchio e a cui l’uomo s’appenda, liberando il saggio dalla presunzione di agire in nome della storia. Se, tuttavia, la fine cattura il proprio inizio, ciò vuol dire che tutte le figure della scrittura e tutti i testi collassano verso la polvere di Adamo, loro origine comune. Essi chiedono a Dio di provare pietà per un male in cui la miseria di uno è la miseria di tutti e il peccato di Israele è il peccato dell’uomo. La liberazione dalla morte passa per la morte stessa, come attesta il martirio dei sette fratelli Maccabei (2 Mac 7) in nome dell’Alleanza di Mosè. Ma ciò vuol dire anche che la liberazione dalla morte passa attraverso la fine dell’illusione di un mondo parallelo che l’occulta ipocritamente, celandola allo sguardo. È quanto intendiamo mostrare nel nostro breve commento a Qo 2,1-16.
Ecco il testo:
1 Io dicevo fra me: «Vieni, dunque, voglio metterti alla prova con la gioia. Gusta il piacere!». Ma ecco, anche questo è vuoto [hebel].
2 Del riso ho detto: «Follia!» e della gioia: «A che giova?».
3 Ho voluto fare un’esperienza: allietare il mio corpo con il vino e così afferrare la follia, pur dedicandomi con la mente alla sapienza. Volevo scoprire se c’è qualche bene per gli uomini che essi possano realizzare sotto il cielo durante i pochi giorni della loro vita.
4 Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti.
5 Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto d’ogni specie;
6 mi sono fatto vasche per irrigare con l’acqua quelle piantagioni in crescita.
7 Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa; ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero, più di tutti i miei predecessori a Gerusalemme.
8 Ho accumulato per me anche argento e oro, ricchezze di re e di province. Mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini.
9 Sono divenuto più ricco e più potente di tutti i miei predecessori a Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza.
10 Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d’ogni mia fatica: questa è stata la parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche.
11 Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco: tutto è vuoto [hebel] e fame di vento. Non c’è alcun guadagno sotto il sole.
12 Ho considerato che cos’è la sapienza, la stoltezza e la follia: «Che cosa farà il successore del re? Quello che hanno fatto prima di lui».
13 Mi sono accorto che il vantaggio della sapienza sulla stoltezza è come il vantaggio della luce sulle tenebre:
14 il saggio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio.
Eppure io so che un’unica sorte è riservata a tutti e due.
15 Allora ho pensato: «Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Perché allora ho cercato d’essere saggio? Dov’è il vantaggio?». E ho concluso che anche questo è vuoto [hebel].
16 Infatti, né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto.
L’esecuzione del lavoro didattico di Prima Liceo Classico prevede un esercizio di lettura che metta conto di focalizzare in modo preliminare il centro delle riflessioni che si svolgeranno negli anni successivi: la predilezione dell’Eletto non ne evita la morte e i dolori, accomunandolo ai fratelli anche se siede sul trono di Faraone (Gn 50,26). Certo, la predilezione si colora di esclusività per Israele come per tutti gli altri popoli, se essa sfiora il trono regale, così che il re prediletto gode nell’immaginario tipico dei popoli tutti di una pienezza che ad altri non è concessa. Eppure… Lo spirito dell’interpretazione, come abbiamo visto, ama sovvertire i luoghi comuni e dissolverne l’apparenza, mostrando che il “qui” del trono è piuttosto un “là”, nella polvere e nel vuoto. Perciò abbiamo voluto presentare un testo in cui l’assioma che vuole il re seduto sul trono del privilegio, sia una mera ingenuità. E, a partire di qui, come è d’uso, fare scorribande nel testo intero mostrandone il filo che lo percorre finché non sia chiaro che predilezione e privilegio non siano così strettamente uniti come pare ai più. Del resto, che il nostro tempo sia il tempo del Paese dei Balocchi dove masse inermi sono divorate dalla bestia sociale mentre ignare godono i propri ludi per precipitare inconsapevoli nell’abisso, è cosa che ormai a me è diventata così chiara, da costituire una squallida banalità. Perciò vale la pena di dar corso a quel po’ di potere smitizzante così tipico dello spirito della critica, che anche in religione è il sale della vita. Per farlo citiamo un testo celeberrimo: quel Qohelet che da sempre fa impazzire ed entusiasmare la critica di tutte le confessioni, nella convinzione che nel suo scrigno si celi un tesoro. E, tanto per contraddirci subito, iniziamo citando …un testo dei salmi!
Se ci chiediamo chi sia l’uomo non sorprende che all’interno del testo biblico affiorino altisonanti affermazioni circa il fatto che sia un re nel momento della sua incoronazione (Sal 8,1-10):
1 Al maestro del coro. Su «I torchi». Salmo. Di Davide.
2 O Signore, nostro Signore, magnifico il tuo nome su tutta la terra! La tua maestà celeste voglio servire,
3 con bocca di bimbo lattante un baluardo opponi ai tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemico e ribelle!
4 Se guardo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato,
5 che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?
6 Davvero l’hai fatto poco meno di un dio [anche angeli va bene NDT], di gloria e di onore lo hai coronato.
7 Signore sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi:
8 tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie dei campi,
9 gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari.
10 O Signore, Signore nostro, magnifico il tuo nome su tutta la terra!
Come vediamo, il fulcro della poesia slitta buttandosi in avanti: dalla casa ove il padre ospita il figlio d’uomo che noi tutti siamo, alla sala regale nella quale il re siede assiso in trono in tutto il suo splendore. Ma l’interprete che voglia dissipare le nebbie deve percorrere il testo a ritroso! Lo sfavillio abbagliante della corona regale non riesce infatti a dissimulare del tutto il malcontento per il quale, insomma, la creatura protesta la propria “minorità” rispetto al creatore – e persino agli angeli, più o meno come la luna scontenta del suo stesso travaglio si rivolge al sole tondeggiante in cielo in un famoso commento rabbinico del Genesi. Sole che, infatti, qui scompare dai cieli. Che dietro a tanta altisonante celebrazione si faccia fatica a dissimulare invidia per il creatore pare finalmente plausibile. Il punto è, però, che l’elisione malcelata pare il punto d’appoggio, il trampolino di lancio, per l’esibita soddisfazione con cui il salmista celebra l’incoronazione regale dell’uomo. Quasi come se si dicesse: nonostante sia meno di Te, guarda che splendore siede assiso sul trono! Così l’uomo usa fare: più è infelice il suo animo e più dissimula felicità per celare il malcontento a se stesso gettando un velo dorato sul fango che monta alla bocca. Ci vuol coraggio per disvelare al proprio cuore il malcontento che lo rode (Sal 144, 1-4):
Di Davide.
1 Benedetto il Signore, mia roccia, che addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia,
2 mio alleato e mia fortezza, mio rifugio e mio liberatore, mio scudo in cui confido, colui che sottomette i popoli al mio giogo.
3 Signore, che cos’è l’uomo perché tu l’abbia a cuore? Il figlio dell’uomo, perché te ne dia pensiero?
4 L’uomo è come un soffio [hebel], i suoi giorni come ombra che passa.
Pur riconoscendo i propri privilegi regali, il re ora non dissimula più la sventura che lo accomuna a tutti i mortali. Intanto, però, notiamo che il salmo 8 e il salmo 144 siano posti in una struttura a chiasmo: il primo attribuisce a tutti la condizione regale, il secondo partecipa al re la condizione universale dell’uomo. Adamo è come Abele [hebel – vuoto]. Notiamo come la Scrittura citi continuamente se stessa: rileggendo il mito essa lo colloca nel tempo e nello spazio, come se le labbra di Davide fossero mosse da quello. Un senso di ripetizione che getta un velo di nebbia sull’intera vicenda umana: leggera, impalpabile, inafferrabile, la vita pare breve ed evanescente anche al Re. In una parola: vuota.
Sebbene la poesia del salmo conservi ancora un tono controllato e fiducioso, essa appare però triste, finché la tristezza cede il passo all’invettiva feroce del salmo 89:
39 Ma tu lo hai respinto e disonorato, ti sei adirato contro il tuo consacrato;
40 hai infranto l’alleanza con il tuo servo, hai profanato nel fango la sua corona.
41 Hai aperto brecce in tutte le sue mura e ridotto in rovine le sue fortezze;
42 tutti i passanti lo hanno depredato, è divenuto lo scherno dei suoi vicini.
43 Hai esaltato la destra dei suoi rivali, hai fatto esultare tutti i suoi nemici.
44 Hai smussato il filo della sua spada e non l’hai sostenuto nella battaglia.
45 Hai posto fine al suo splendore, hai rovesciato a terra il suo trono.
46 Hai abbreviato i giorni della sua giovinezza e lo hai coperto di vergogna.
47 Fino a quando, Signore, ti terrai nascosto: per sempre? Arderà come fuoco la tua collera?
48 Ricorda quanto è breve la mia vita: invano forse hai creato ogni uomo?
49 Chi è l’uomo che vive e non vede la morte? Chi potrà sfuggire alla mano degli inferi?
50 Dov’è, Signore, il tuo amore di un tempo, che per la tua fedeltà hai giurato a Davide?
La disillusione prende il posto della lode: il Dio della promessa e del giuramento ha tradito se stesso e disonorato il patto con il suo servo fedele. Quella che pareva una sicura rimozione ben sostenuta dalla fiducia, si è rivelata un’illusione la cui amarezza ora esplode nell’invettiva. Queste sono le parole di chi si ritiene innocente. E tuttavia, la rimozione c’era sin dal salmo 8, segno che una colpa, seppur malcelata, c’era. Ma a tal punto l’uomo inganna se stesso da levare i pugni al cielo proiettando in Dio colpe che sono proprie. Così non stupisce che in Qohelet (Qo 1,1-3) l’invettiva si sia fatta grido di protesta per l’universale condizione umana:
1 Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re a Gerusalemme.
2 Un immenso vuoto [hebel], dice Qoèlet, un immenso vuoto [hebel], tutto è come vuoto [hebel]!
3 Quale valore viene all’uomo da tutta [Kol] la fatica che affatica l’uomo sotto il sole?
L’uomo pare ora una creatura fatta al risparmio, da un Dio avaro e geloso dei propri beni. Così che quel mondo che a Dio appare buono [tov] nei giorni della creazione, all’uomo, ora, appare vuoto [hebel] e privo di valore; e la vita una fatica che non vale la pena di vivere, sebbene il Re non abbia risparmiato nulla al proprio desiderio, diventando il più saggio dei re (Qo 1,16), soddisfacendo pienamente il proprio corpo (Qo 2,3) e intraprendendo grandi opere (Qo 2,4). Tuttavia, basta il solo pensiero di esser sostituito (Qo 1,12) da gettarlo nello sconforto più profondo. La ferita della morte che tutti accomuna pare poter essere recuperata dalla semplicità dello stile di vita: mangiare, bere, dormire accanto alla propria donna sono pur sempre “dono di Dio”. Il che, detto da un re che ha vissuto nei fasti più sontuosi mentre dedicava la propria mente alla sapienza dovrebbe pur dirci qualcosa! Forse il problema che attanaglia l’uomo non è la morte, che è un’astrazione, perciò ancora una difesa nei confronti della realtà, bensì l’ipocrisia con cui vive la propria vicenda, perché l’ipocrisia, la dissociazione del cuore e della mente, del corpo e dell’anima, sono una dissimulazione dell’uomo a se stesso, un raccontar favole, una risposta sbagliata a quella paura che ci governa tutti e che io dirò ora francamente: non della morte, bensì del proprio corpo l’uomo ha paura, della sua fragilità, del suo dolore, della sua ingovernabilità, della sua imprevedibilità. Perciò Qohelet dedica il corpo al vino mentre distrae da esso la propria mente, fuggendo in una sapienza che ormai è priva di vita perché dalla vita vuol fuggire prima che essa, certamente, fugga da sé, e così, fuggendo da se stesso, è già morto e ha in odio la vita. La sontuosa vita regale di Qohelet appare una maschera sotto la quale si celano paure in fondo assai comuni all’uomo che non possono però essere nascoste semplicemente perché ne costituiscono essenzialmente la realtà più propria, plasticamente rappresentata dai bisogni elementari del corpo. La ferita che essa segnala si ricuce recuperando il valore di dono delle esperienze più semplici del vivere, quali mangiare, bere e godere. Quale ironia! L’infelicità del re potrebbe esser curata in una qualsiasi casetta di campagna, a patto però che non sia percepita e vissuta come un’umiliazione. In tal modo lo spirito dell’interpretazione lavora a ritroso, come rinculando, che di fronte a parole altisonanti ed eteree (morte, vanità – è la traduzione recepita di “vuoto”) quali sono usi a riempirsi la bocca i sapienti, diffida, pressappoco come il mulo che debba portare il cavaliere oltre al basto. E perciò alla vanità che tutto inghiotte come baratro mortale, lo spirito dell’interpretazione preferisce di gran lunga il vuoto dello stomaco, la tavola e il talamo per intender la vita: ciò che rode Qohelet e che lo spinge nel baratro della depressione non è la morte, ma è la paura che essa genera quando la vita non sia stata vissuta a dovere, coltivando l’insano proposito di fare esperienza di tutto [Kol] e perciò dimenticando i limiti e i confini precisi che ogni esperienza deve avere per essere umana. La dissociazione per cui il Re pretende di essere sapiente mentre barcolla fradicio di vino alle orge di corte è fin troppo lampante per non essere vista: essa è la tipica menzogna di chi non sappia coltivare la vita con coerenza e limiti appropriati perché coltiva un insano amor di sé che scimmiotta il creatore e dice a se stesso: «Orsù, dopo il trenta, facciamo trentuno»! È precisamente per questo motivo che la vita appare vuota. Essa viene vissuta in uno stile che chiameremo cainitico e che soggiace all’insensatezza di voler tutto per sé senza misura come il ricco epulone della parabola di Luca il cui inferno è questa stessa vita.
Questo è il quadro in cui la sezione riportata in esergo (Qo 1,1-16) assume il suo senso: un re che coltivi dissennatamente se stesso alimentando ipocritamente la propria personalità, pretende di “riempire” se stesso più o meno come uno stomaco che risulta, tuttavia, sempre più vuoto e affamato perché ciò che riempie la personalità non sono le cose, bensì la coerenza e la verità con cui è vissuta la vita. Il segno di tale ipocrisia sono i nove “mi” che ritmano il testo: il re, che dovrebbe essere il pastore del popolo (Davide lo era, secondo l’iconografia, ma soprattutto lo è Dio in tutta la tradizione biblica) non può accumulare solo per sé erigendo se stesso in cima alla piramide sociale che ora appare francamente una torre di Babele su cui i pochi dominano i molti. Per questo il mondo di Qohelet appare qui ricco e sontuoso, sì, ma abitato soltanto da schiavi, schiave e ragazze piacenti come allude il versetto 8. Il Re è nudo. La sua depressione è dovuta a uno stile di vita contraddittorio che sostiene una vita vissuta ipocritamente a favore di se stessi mentre dovrebbe servire il popolo intero.
In tal modo Qohelet non è solamente un libro di sapienza universale che medita la fine, bensì anche un libro di storia che valuta un lasso di tempo e un’istituzione: la monarchia. Essa appare, come la società tutta, camminare a testa in giù, contraddicendo se stessa e sovvertendo la parola e l’agire di Dio:
«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2)
Che la società israelitica governata dalla monarchia salomonica (il suo regno è datato approssimativamente dal 970 al 930 a.C. e fu l’ultimo dei Re del regno unificato di Giuda e Israele) apparisse come una torre di Babele agli occhi di Qohelet è probabilmente un anacronismo, vale a dire un modo attraverso il quale il saggio valutava il presente (IV – III secolo a. C.) retrodatandolo e in tal modo svelando un’ambiguità iscritta nel progetto monarchico e dunque nell’istituzione stessa. Se le cose stanno così, dovremmo trovare tracce di una tale corruzione dei costumi anche in altri passi più antichi. Oltre i tantissimi che criticano l’istituzione monarchica nella letteratura storica di Israele, scegliamo di citare il primo profeta scrittore, vissuto intorno al 750 a. C., Am 2,6,16:
6 Così dice il Signore: «Per tre misfatti d’Israele e per quattro non revocherò il mio decreto di condanna, perché hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali,
7 essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri, e padre e figlio entrano in una stessa ragazza, profanando così il mio santo nome.
8 Su vesti prese come pegno si stendono presso ogni altare e bevono il vino confiscato come ammenda nella casa del loro Dio.
9 Eppure io ho sterminato davanti a loro l’Amorreo, la cui statura era come quella dei cedri e la forza come quella della quercia; ho strappato i suoi frutti in alto e le sue radici di sotto.
10 Io vi ho fatto salire dalla terra d’Egitto e vi ho condotto per quarant’anni nel deserto, per darvi in possesso la terra dell’Amorreo.
11 Ho fatto sorgere profeti fra i vostri figli e nazirei fra i vostri giovani. Non è forse così, o figli d’Israele? Oracolo del Signore.
12 Ma voi avete fatto bere vino ai nazirei e ai profeti avete ordinato: “Non profetate!”.
13 Ecco, vi farò affondare nella terra, come affonda un carro quando è tutto carico di covoni.
14 Allora nemmeno l’uomo agile potrà più fuggire né l’uomo forte usare la sua forza, il prode non salverà la sua vita
15 né l’arciere resisterà, non si salverà il corridore né il cavaliere salverà la sua vita.
16 Il più coraggioso fra i prodi fuggirà nudo in quel giorno!». Oracolo del Signore.
Come si vede, l’ipocrisia regna sovrana: i giudici corrotti vendono gli imputati innocenti per somme di denaro, talvolta anche per debiti insignificanti. I benestanti coltivano rapporti di totale indifferenza nei confronti dei meno abbienti, a tal punto che paiono calpestarli come “polvere della terra” (per una curiosa associazione inversa, chi è stato al museo ebraico di Berlino, ricorderà certamente la passeggiata che il visitatore è invitato a fare su medaglie metalliche che paiono volti umani), impedendo loro anche ogni possibilità di successo sociale. A tal punto la situazione morale appare compromessa che le classi dominanti riducono giovani schiave domestiche a donne di piacere, sfruttandole senza rispetto. Nemmeno il tempio appare immune dalla corruzione morale: i sacerdoti usano vesti pignorate come stracci su cui coricarsi con prostitute e bere vino in quella che il profeta ormai chiama la “casa del loro dio”. A tal punto la società israelitica appariva corrotta da non poter essere più ospitale in alcun modo, né per coloro che pure l’abitavano, né per chi la governava, neppure, infine, per Dio stesso. Coloro che sono stati liberati da Dio (v. 10) hanno costruito una società illiberale basata sullo sfruttamento e il dominio. Più che una convivenza fraterna pare indifferenza fratricida, come recita il famoso detto: “fratelli, coltelli”. Perciò il futuro (vv. 13-16) è già iscritto nell’ipocrisia del presente ove coloro che ostentano qualità dissimulano vizi osceni: l’agile non fuggirà, il forte sarà inabile, il prode soccomberà, l’arciere non saprà tendere l’arco, il corridore e il cavaliere non scamperanno in battaglia. Questo non è il futuro, bensì il presente in cui il futuro è già iscritto. Compito del profeta è svelare l’ipocrisia del presente a coloro che brancolano come ciechi millantando doti che non hanno.
In tal modo la vita fa paura, se essa è vissuta ipocritamente, dissimulando i propri vizi e ostentando virtù irreali, tali da distorcere il senso della realtà, più o meno come avviene nel capolavoro di L. Carrol, Alice nel paese delle meraviglie. Il nostro piccolo spirito dell’interpretazione osa ritenere che la morte spaventi, se la vita e le responsabilità che essa implica sono eluse, perché, certo, la coerenza costa fatica, l’impegno sincero e leale è difficile da sostenere, l’attenzione e il rispetto significano una vera percezione dei propri limiti e dei bisogni altrui e non sempre è facile, non sempre è possibile, non sempre si sa fare, assegnando agli altri la stessa urgente realtà che hanno i nostri sentimenti, le nostre emozioni, le nostre vite, perché queste ci sono date immediatamente, mentre l’altra deve esserci in qualche modo comunicata, sostenuta, difesa dal nostro ombelicale narcisismo. Un’elezione che sia un privilegio narcisistico per sé soli, non è “religiosa”, né tanto meno giusta. Ma soprattutto essa è la strada percorsa dalla paura che assegna a sé soli un posto a tavola, ignorando gli altri. Figlia della solitudine dei nostri cuori, la paura ci isola, lasciandoci sempre più soli, capovolgendo la realtà che ci vuole insieme e la verità che ci vuole realistici. Per questo, ogni qual volta che rappresentiamo noi stessi diversi da quello che siamo, mentiamo a noi stessi e apriamo la strada alla paura di vivere, che è l’alter ego della paura di morire. Essa si consolida in uno stile di vita talvolta appreso in famiglia, talaltra consolidato in società. Ma ad essa comunque abbiamo dato credito, abdicando alla responsabilità che abbiamo verso noi stessi e la realtà. Di questa dissociazione dalla realtà si nutre la paura, del vivere come del morire, sostenendo un’illusoria quanto irrealistica percezione di sé che, come abbiamo visto, la religione concorre a smascherare come il vizio mortale che ammalora l’anima e insidia la vita. Perciò il Codice di Santità di Dt 15-32 è un codice di fraternità, la cui difficoltà sta tutta nel fatto che essa deve essere prescritta, tanto è la distanza tra il dire e il fare. E, sebbene la fraternità sia compito difficile, la Scrittura l’assegna all’uomo sia sottobraccio sia compiutamente anche a fronte della morte (2 Mac 7). Di fronte al martirio la madre dei Maccabei attesta la propria fede che Dio sia all’altezza della vita che ha creato nel momento stesso in cui ella rinuncia all’ossessione di vedere nella prole la garanzia e la protesi della propria vita. Che Dio sia l’affidabile origine della vita, disposto dunque a sostenerla senza ritegno di sé, è possibile solo se la madre fa un passo indietro e attesta se stessa come colei che ha procreato rinunciando all’illusione di garantire da sé la vita. In tal modo il testo svela l’intento del sacrificio della vita: esso esprime la rinuncia alla relazione sbagliata con la vita propria e quella dei propri figli: ovvero il rifiuto a considerarla una realtà dovuta e alla propria portata. Ciò equivale a riconoscere la Regola Aurea per la quale ciascun rapporto è buono se esso è fraterno, ossia coltivato e vissuto amando il prossimo come se stessi.
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