Verità e metafora
Il carattere di presupposto del principio speculativo spiega l’ambiguità del suo esito nelle contrapposte filosofie post-hegeliane. In ogni caso, il pensiero antropocentrico dell’Ottocento realizza un’appropriazione dell’assoluto a vantaggio dell’uomo attraverso il rifiuto della trascendenza e la spiegazione genetica della coscienza religiosa. In questa visione, il soprasensibile non è che il prodotto contraddittorio del sensibile. Interpretando l’esito della fenomenologia hegeliana nel senso dell’annichilimento dell’essenza divina nella coscienza umana, il pensiero antropocentrico associa ai successi della tecnica e della scienza moderne una concezione della storia tesa ad un indefinito successo storico. Di qui l’affermazione della interpretazione intesa quale liberazione dalla coscienza illusoria, di cui Nietzsche è il massimo esponente. Ma la coscienza illusoria non è che l’aspetto antropologico dell’abbandono di una autentica prospettiva ontologica in seno alla tradizione occidentale. Perciò l’indagine sulla cultura si approfondisce nell’indagine sul nichilismo dell’Occidente. Ciò che caratterizza la situazione contemporanea è il fatto che l’annullamento non è più un’eccezione, bensì una situazione normale per cui l’uomo sa di non possedere più in alcun modo la verità. In questo quadro, gli ideali di progresso e l’affermazione del potere scientifico si rivelano tentativi di totalizzare il senso della storia mediante una restaurazione della visione morale del mondo già peculiare alla tradizione teologica, intesa come espressione sintomatica del carattere essenzialmente dualistico del pensiero occidentale.
Correndo il rischio di una certa schematizzazione, si può dire che: identificando l’essere col divenire, da una parte il nichilismo comporta la perdita della differenza ontologica, dall’altra, perde di senso la visione dell’uomo come soggettività. Con ciò fa corpo il sospetto radicale della verità il cui criterio viene a coincidere con la vitalità. In questo quadro, il nichilismo ha comportato la svalutazione di tutti i valori tradizionali e la costituzione di nuovi valori, o la rivalutazione di “valori immorali” sia per la coscienza individuale sia nell’ambito sociale. Nella nuova situazione postmoderna ciò significa l’abbandono della pretesa di restituire riflessivamente una visione totalizzante della storia. La questione si precisa allora nella convinzione che i modi con cui istituiamo il senso non sono identicamente i modi della comprensione totalizzante della storia. In altri termini, la contestazione dell’assimilazione della verità nelle forme della sua disponibilità storica, attesta consapevolmente la divaricazione fra libertà e sapere caratterizzante la modernità. Se infatti l’esito del nichilismo è in radicale rottura con la tradizione metafisica precedente, il pensiero che ne deriva appare da una parte incapace di articolare la riflessione sulla verità con le forme del senso disponibile, ricadendo nell’esperienza formalistica peculiare alla modernità; d’altra parte, la fondazione pratico-effettuale del senso rinuncia a porre la questione della verità, se non in quanto regola formale di uno scambio sociale delle idee aperto e democratico. In ogni caso, se gli orientamenti attuali del dibattito manifestano la legittimazione del carattere nichilistico della contemporaneità come condizione normale in cui è la stessa verità ad apparire problematica, la riflessione di Nietzsche appare più datata proprio in quegli aspetti che hanno costituito i leit-motives della vicenda esegetica; d’altra parte, l’esperimento nietzscheano del superamento del nichilismo europeo non è immediatamente riconducibile ai suoi esiti prossimi, e la sua filosofia appare ormai sempre più come una filosofia dell’avvenire.
Poiché il pensiero di Nietzsche si propone come la soglia di una svolta radicale della civiltà europea dal moderno alla nuova situazione postmoderna, riteniamo, in questo caso, e per quanto è possibile nei limiti della nostra breve esposizione, di dovere presentare l’opera del filosofo nella sua complessa articolazione, evitando il rischio di una schematizzazione, che ridurrebbe quella creatività artistica con cui Nietzsche si inserisce nell’alveo della riflessione sulla società, della filosofia, della religione cristiana.
Critica della cultura
Tutto in Nietzsche è aneddoto di pensiero, segno della reciproca appartenenza di conoscenza e interessi pratici che, professata filosoficamente, è esperimentata nella concretezza della vita. Si capisce allora come disprezzasse lo stato della filologia tedesca di quel tempo, che si modellava sugli ideali e sui metodi della scienza della natura, privilegiando l’oggettività dell’indagine, ma anche indulgendo in un certo atteggiamento industriale della cultura tedesca che atomizza il sapere sul modello della divisione del lavoro, perdendo profondità nei confronti della cultura classica.
Nella visione romantica, il classico è un punto di arrivo di una storia che viene da Oriente: in ciò il classico non è natura, bensì cultura che si impone su altre civiltà, cancellandole e rimuovendole. Hegel concepisce il classico come un punto di arrivo ideale che si impone come la vittoria della libertà dell’essere autocosciente sulla limitatezza orientale: come Edipo, che rispondendo all’enigma della Sfinge afferma l’uomo come autocoscienza. La tragedia nasce dunque dal λογος. Diversamente, nella visione di Nietzsche, la tragedia viene dallo spirito della musica. Il coro infatti, non narra del λογος, bensì di un dio la cui ebbrezza si oppone alla chiarezza dell’autocoscienza e della ragione precedendole. La duplicità che ne risulta pone la dialettica fra lo spirito dell’Oriente e lo spirito greco all’interno di quest’ultimo come l’antitesi tra Apollo e Dioniso. Mentre il primo è il dio delle belle forme, dell’armonia, della semplicità e dell’autocoscienza riuscita esso stesso può essere tale solo nel confronto con lo spirito orgiastico di Dioniso, di modo che la bellezza delle forme classiche è la reazione alla virilità preoccupante del dionisiaco pago di sé. Questo concentra in se stesso le energie che contrastano alla ragione e alla morale.
Se i greci devono apparire realmente ed idealmente sereni, ciò lungi da essere il marchio dell’ingenuità è il risultato di un dramma interiore risolto, la cui soluzione imponeva il superamento dell’orrore dionisiaco attraverso un movimento opposto adeguato. Così, dunque, se Dioniso travalica l’individuo come quell’attività che conduce all’essere, Apollo protegge dall’orrore dell’esistenza come un’illusione benefica. Ma la questione non è semplicemente estetica, bensì riguarda l’essenza stessa della scienza, in quanto questione della morte dell’arte. Tramutando il coro in un elemento didascalico funzionale alla comprensione dello svolgimento dell’azione, e caratterizzando i personaggi nel senso della descrizione naturalistica, Euripide “urbanizza” la tragedia. Euripide e Socrate dissolvono dunque la tragedia attraverso la dialettica nella convinzione che il bello sia tale solo in quanto razionale e che solo il sapiente è virtuoso. Platone, soggiogato dal modello del maestro morente, ne canta le lodi in un nuovo genere, il dialogo, che nel mescolamento degli stili precipita l’arte in un eclettismo sospeso a metà tra narrazione, lirica, dramma, prosa e poesia. Nella visione di Nietzsche, quella morte dell’arte che Hegel considerava fenomeno dei moderni e dei romantici, si declina al passato; ma la decadenza dell’arte di fronte alla dialettica è tuttora concepita nei termini hegeliani del depotenziamento di quella in quanto si riduce a semplice espressione sensibile dell’idea, cioè di quanto può e deve essere detto più adeguatamente attraverso il concetto. Al contrario di Hegel, Nietzsche ritiene che la dialettica non comporti il superamento dell’arte in una forma riuscita di soddisfazione dei bisogni più alti dell’umanità. Il declino dell’arte e la conseguente affermazione della dialettica segnano l’epoca moderna sin dalla cultura alessandrina che predestina l’Occidente a trovare piacere nello svelare purché questa sia un’operazione felice, riuscita. La demitizzazione che comporta lo spirito scientifico è bensì allergica al riconoscimento dell’orrore dionisiaco e perciò si rivela incapace di accettare appieno l’esistenza. Non si tratta, in ogni caso, di un ideale mnestico, né di affermare la compresenza di smascheramento e rimitizzazione, quanto, piuttosto, della rinascita del tragico, la cui esecuzione tratteggiata nell’opera Sull’avvenire delle nostre scuole, costituisce come l’attualizzazione del rapporto col classico che é posto al centro dell’opera sulla tragedia greca. Per essa il sistema degli studi umanistici poggia interamente sull’alessandrinismo ed è affetto dalla mancanza di stile tipica dell’epoca moderna. La frammentazione degli studi è conseguenza di un impianto più simile alla tecnica e alla divisione del lavoro industriale piuttosto che a una visione complessiva sul classico. Essa ha di mira la formazione della classe docente, la professione dell’insegnante, e perciò riduce la cultura a tecnica, cadendo in preda ad altre istanze. Queste contribuiscono a diffondere un sapere acefalo, impoverito, il quale oltre tutto si fa strumento dello Stato: il giornalismo, segno della cultura ridotta a fatto del giorno, cifra dell’eclettismo barbaro e privo di stile. Ciò che solo può salvare la cultura tedesca dall’alessandrinismo imperante è il recupero serio del classico che già aveva guidato Goethe, Schiller, Hölderlin.
Sulla linea di queste considerazioni si pone il testo dell’anno 1872, Su verità e menzogna in senso extramorale, che ora riportiamo in due suoi brevi ma significativi passi:
Che cos’è dunque la verità? un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come moneta.
L’illuministico svelamento delle illusioni scientifiche deve produrre un nuovo velamento per non tradursi a sua volta in illusione di verità, ma ciò che così è prodotto rimane nell’ambito del mito.
Quell’impulso a formare metafore, quell’impulso fondamentale dell’uomo da cui non si può prescindere neppure per un istante, poiché in tal modo si prescinderebbe dell’uomo stesso, risulta in verità non già represso, ma a stento ammansito, dal fatto che con i suoi prodotti evanescenti, i concetti, sia stato costruito per lui un mondo nuovo, regolare e rigido, come roccaforte. Tale impulso si cerca allora un nuovo campo d’azione, un nuovo alveo per la sua corrente, e trova tutto ciò nel mito, e in generale nell’arte … La veglia di un popolo – per esempio degli antichi Greci – ispirato miticamente, risulta, a causa dei miracoli continuamente operati quali sono accolti dal mito, realmente più simile al sogno che non alla veglia del pensatore scientificamente disincantato.
Siamo in grado di percepire l’impulso alla verità? Sinora abbiamo inteso parlare dell’obbligo verso di essa imposto dalla società. Obbligazione che cela l’autentico senso metaforico della verità: il suo sinonimo è l’illusione di cui però si è dimenticata la natura illusoria. La verità, come tale, è una metafora logorata, che ha perduto ogni forma sensibile, incapace di realtà, se non per riferimento al consenso della società umana. Divenuta consenso, omologazione, la metafora, una volta smascherata, rivela le relazioni umane che la sorreggono. Ma non si tratta qui, semplicemente di togliere la maschera alla metafora illusoria. Il vero problema non è la verità, quanto il suo impulso. La questione è piuttosto la volontà della verità: essa è determinata, alla fine, da un’esigenza che stabilisce le relazioni sociali, dal consenso, piuttosto che dalla realtà. L’obbligo imposto dalla società chiede di interpretare l’illusione della verità come l’identità della verità. In tal modo Nietzsche delinea le tappe del lavoro di smascheramento: dapprima la verità si mostra come metafora illusoria, alla cui base si pone il consenso sociale. Ma, perché si possa cogliere il frutto della determinazione metaforica della verità, occorre rinunciare alla concezione della verità come adeguazione dell’intelletto alla cosa, in favore della questione più radicale della volontà di verità ai fini dell’aggregazione sociale. Ciò significa, in primo luogo, produrre una caratterizzazione dell’intelletto; in secondo luogo, mostrare l’apporto specifico del linguaggio.
L’intelletto, in questa visione nietzscheana, è un aiuto dato agli essere più infelici per difendersi nei confronti sia della natura sia degli altri uomini. Non altro. I deboli sono coloro che vengono a porsi in antitesi al superuomo. La loro debolezza li spinge ad affidarsi ai meccanismi della società. Esseri inetti, dominati da forze di gran lunga superiori a sé, i deboli sperimentano l’estraneità della natura anche a livello concettuale. Se infatti, l’universalità del concetto legittima la manipolazione del mondo ambiente, e perciò, rende possibile un rapporto dell’uomo con esso, l’uomo debole, incapace, preda della paura, si sforza di astrarre e di generalizzare, irrispettoso della singolarità irripetibile di ogni evento. Così inteso, è chiaro, il concetto elaborato dall’intelletto, non ha nulla della realtà, anzi, l’astrazione che gli è propria, fa violenza alla realtà, giacché questa può essere concepita come l’insieme dei fenomeni, piuttosto che la loro legge. Questa, come tale, ossia come presunta legge di realtà, diviene, per l’uomo in generale, l’atteggiamento da assumere, di modo che debole e forte vengano a porsi sullo stesso piano. Di qui il carattere di omologazione. La verità è tale se è ripetuta insistentemente fino al punto che diventi impossibile coglierne l’illusorietà. Ma la metafora non ha origine dalla realtà, giacché essa si pone al servizio del debole attraverso l’astrazione, e poiché, sia il potere legiferante dell’astrazione concettuale, sia l’interesse del debole, concorrono alla ossessionante ripetizione dell’astrazione ai fini di ottenere una omologazione del forte alle possibilità limitate del debole, il linguaggio che si offre come medium dell’astrazione, viene a sostituire la realtà stessa. In questo senso si può dire che la metafora è posta dal linguaggio. Affidata al linguaggio, essa si espone ai suoi meccanismi devianti. Anzitutto, l’uso ossessivamente reiterato, a-problematico, della metafora, ne consente la diffusione, ma anche il logorio, all’interno dell’apparato scientifico che presiede ai meccanismi metodologici. La narrazione scientifica appare fuorviante, eppure essa domina incontrastata nella nostra società. Questa poi assume la funzione di abbellire e trasferire la verità illusoria al fine di creare il consenso.
Le parole ci impediscono il cammino – Ovunque i primitivi stabilivano una parola, credevano di aver fatto una scoperta. Ma come diversamente stavano le cose in verità! Essi avevano toccato un problema e, illudendosi di averlo risolto, avevano creato un ostacolo alla sua risoluzione. Oggi, ad ogni conoscenza, si deve inciampare in parole dure come sassi, eternizzate, e invece di rompere una parola ci si romperà una gamba.
Per guadagnare una corretta prospettiva occorre tenere presente la specificità della collocazione nietzscheana della questione della verità. Collocata al di fuori del quadro della possibilità e oggettività caratteristico della visione antica, essa non pone il tema della conoscenza in modo che dipenda dalla questione posta dal problema del rapporto tra verità e realtà. Per gli antichi, infatti, la conoscenza vera è la conoscenza che comprende la realtà. La prospettiva nietzscheana sottolinea più il soggetto che l’oggetto della conoscenza, nella prospettiva già propria al kantismo. Alla fine, il progetto nietzscheano vuole essere una prosecuzione della critica trascendentale kantiana, sino a raggiungere il risultato di porre la verità dalla conoscenza. L’interesse di Nietzsche allora, è per una proposta che sottometta l’oggettività alla soggettività. È una vera e propria demolizione dell’oggettività che pone il nichilismo in un cominciamento radicale. Quanto alle categorie aristoteliche dell’Essere, se la storia del pensiero le ha considerate categorie della conoscenza, Nietzsche le guarda dalla prospettiva della volontà. Giacché, infatti, il nichilismo evita di considerare l’intelletto nella prospettiva dell’universalità, precisamente a causa della incapacità dell’universale a comprendere il particolare senza “toglierlo” in una sintesi superiore, la categoria deve essere considerata condizione di possibilità della volontà. Il volere diviene l’elemento che corrisponde alla conservazione e all’accrescimento della vita. Per questa via Nietzsche può sostenere che giudizi falsi, i quali però sostengano e promuovano l’accrescimento della vita, sono valori “veri”, “autentici”. Dunque, ciò che qualifica il conoscere è il senso, il valore. A monte del problema della verità sta il tema della significatività. Le categorie che corrispondono a questa nuova considerazione del conoscere, sono quelle del pensiero nobile, o del valore “alto” o “basso”. La ricerca veritativa non ha più riferimento alla logica, bensì è sostituita dalla tipologia e dalla topologia. Per quest’ultima, non si dà mai un luogo della valutazione che non sia al posto della logica tradizionale. E poiché la logica è proposta indipendentemente dalle situazioni del soggetto, la tipologia è il discernimento sul tipo d’uomo che pone la valutazione. La dissoluzione dell’oggettività mira all’emergenza della valutazione interpretante: non è un caso, la valutazione del padrone non è identicamente quella dello schiavo. Non ha senso dunque la domanda «che cosa è la verità?». Piuttosto si tratta di determinare «chi dice la verità?». Non: «che valore», ma «chi valuta». Tuttavia, se la verità — intesa come valore — è affidata al soggetto, occorre porsi la domanda ulteriore: «chi è il soggetto?». La volontà di potenza qualifica in radice il soggetto. Sembrerebbe dunque che Nietzsche finisca per consegnare integralmente il valore alla soggettività. Ora, se questa non è che espressione della volontà di potenza occorre dire che la volontà di potenza non è altro, alla fine, che la realtà stessa. La realtà è volontà di potenza. Solo in questo modo anche la soggettività è affrancata. La concezione nichilista opera in tal modo una trasformazione profonda del quadro concettuale moderno; per esso la conoscenza si muta in credenza, l’evidenza in certezza, l’essere in valore e, infine, l’intelletto in volontà.
La barbara mescolanza di stili che affligge la cultura tedesca è dunque il sintomo di una più diffusa malattia storica che ha contagiato l’intera umanità del sec. XIX. In tal modo Nietzsche porta all’evidenza le aporie dello storicismo, che concependo la comprensione come un processo interpretativo che coinvolge tutte le epoche, vagliandone con precisione minuziosa ogni più piccolo dettaglio, si è impedita la creazione di una storia e di uno stile peculiari, confinandosi in un sapere cristallizzato nella esposizione museale dei suoi momenti. L’uomo moderno, pur nella precisione dell’analisi storica è distante dalla storia come lo spettatore di una vicenda che non lo riguarda. Tema, questo, che assumerà sempre più esplicita rilevanza nella filosofia del ‘900. Il vertice della conoscenza storica non è l’oblio di sé nella trasposizione in un remoto passato ripetuto nell’epica ricerca dello storico — ciò che appunto costituiva l’ingenuo ideale della storiografia romantica — bensì il superamento della storia in nome della vita; ciò che Nietzsche chiama storia critica.
La morte di Dio
Lo spirito libero nietzscheano ripropone verso la fine dell’Ottocento l’ideale volterriano del libre penseur il cui compito sociale e culturale ad un tempo consiste nel sottoporre al vaglio della critica la tradizione e la morale finché si giunga ad un’emancipazione da esse. L’iniziale polemica con la mancanza di stile che imperversa sulla modernità diviene biasimo del tradizionalismo, del prevalere dei sentimenti, del romanticismo che costituisce il tratto deteriore della cultura tedesca. Di pari passo all’abbandono, almeno parziale, degli ideali romantici col quale fa corpo l’allontanamento da Wagner, la polemica anti-positivista si muta nella riabilitazione dell’oggettività scientifica priva di pathos, il cui ideale è la razionalità. Ai valori ideali dell’Ottocento Nietzsche contrappone la concretezza materiale del corpo, la quale non è giudicata priva di incisività nella genesi e nello sviluppo del pensiero, come indica la metafora della grande ragione. Come si vede, la ripresa del progetto illuminista non ne è la ripetizione, bensì la messa in opera di un procedimento dialettico per il quale non è necessario opporre alla ragione qualcosa che le sia totalmente eterogeneo per contenerla nei suoi limiti. Piuttosto, proprio il compimento della critica richiede che si superi il concetto di ragione implicato nel criticismo settecentesco e poi sviluppato sugli stessi presupposti dalle scienze dello spirito romantiche. L’illuminismo è dunque una figura ancipite: se da un lato, infatti, si pone come strumento di emancipazione dalla tradizione e dai pregiudizi che con essa fanno corpo, dall’altra, poiché esso concepisce il sapere in funzione del potere — se non addirittura identificandolo con questo — esso si traduce in un dispositivo dogmatico in mano all’amministrazione e a quant’altri se ne possono avvalere. Ora, tale ambiguità è positiva se la critica non si limita alla decostruzione dei miti, volta a smascherare i vincoli sin troppo umani della pretesa oggettività di una scienza che si fondi sul disinteresse del ricercatore per il ricercato, ma pone mano a una rinascita di nuovi miti e valori capace di dare sostanza al progetto di emancipazione degli spiriti liberi. Coerentemente, non è sufficiente muovere una critica ai valori esistenti, occorre superare la prospettiva che si limita alla critica della cultura, in quanto essa procede con l’intento esclusivo di rischiarare l’esistente, declinando la responsabilità di creare nuovi valori. Il criticismo autentico è rappresentato dunque dal filosofo legislatore che alla critica dei costumi unisce la capacità artistica di creare nuovi modelli che seducano gli uomini.
La Gaia scienza è l’esecuzione di una tale dialettica per cui, se considerata nel suo assieme, la storia occidentale abbisogna dell’illuminismo come di un suo momento essenziale. Ciò significa riproporre l’esame dell’imporsi dell’ottimismo socratico sulla tragedia greca in prospettiva diversa rispetto all’esame svolto nella Nascita della tragedia. Il pathos del tragico non può che soccombere di fronte all’affermazione di un pensiero sensibilmente più ironico, individuale e secolarizzato. La tragedia si dissolve inavvertitamente nell’ironia e nella commedia, e la forza delle passioni universali diviene interesse privato, ma per ciò stesso, principio di una conoscenza non illusoria e di un meno insincero amore per la verità. Poiché però, la cura di sé e il pathos della verità non sono che la secolarizzazione della visione tragica del mondo, sopravvive in essi il loro fondamento avverso e la loro provenienza. Nella foga della conoscenza oggettiva, l’amore per la verità non smette di essere una passione. In tal modo l’ascesi della conoscenza e perfino il martirio di chi nega se stesso sono espressioni di una volontà tutt’altro che sopita, bensì infiammata di passione. Risulta così evidente la motivazione che spinge Nietzsche alla polemica con Wagner: l’illuminismo dogmatico non può essere superato da un’arte che pretenda di opporglisi come un’antitesi ad esso estranea, giacché questa possiede ancora il suo pathos. È piuttosto la farsa lo stile che più si addice al superamento, giacché in essa si realizza un disincanto ed una maggiore onestà. Così come l’amore per la verità e il sacrificio in suo nome non sono che la trasposizione della tragedia nel linguaggio individualista della filosofia, l’arte tragica di Wagner appare ora a Nietzsche una lusinga a quel pathos della verità. Essa allora realizza un connubio incestuoso, deprivante dell’autonomia artistica. Alla luce beffarda della commedia, l’impeto tragico dell’Illuminismo demistificante appare esso stesso mito, seppure privo di consapevolezza. La dialettica dell’Illuminismo non è compiuta che se mette conto di operare un ulteriore smascheramento così che non resti insabbiata nell’inganno mitico della verità metafisica.
È in questo orizzonte che va inserito l’aforisma 125 della Gaia scienza. L’umanità ha di fatto superata la pretesa di valere di ogni fondamento, sia esso religioso o scientifico. L’esito nichilistico dell’Occidente, tuttavia, non ha ancora trovato un’umanità che gli corrisponda, pertanto questo avvenimento, già avvenuto nella sua effettività, attende ancora di essere compreso. Il nichilismo nietzscheano allora è un problema. Non solo a causa della complessità del tema, in quanto con esso è in gioco l’intero della riflessione filosofica, bensì, anche per l’ambiguità delle posizioni che Nietzsche stesso assume contraddittoriamente. Anzitutto, in sintonia con il modello teorico proposto dalla metafisica classica, il nichilismo nietzscheano intende porre il soggetto in una collocazione marginale e secondaria rispetto al dato che emerge dalla realtà. Per esso il soggetto si dà come un ente fra gli altri. Nella situazione moderna, la soggettività è in grado di porre positivamente la propria collocazione rispetto alla realtà, e ancor più, rispetto a se stessa. Ma, in questa visone, è la volontà di potenza che stabilisce il suo fine adeguato, rigettando finalità già date dalle regole tradizionali, che per essa sono semplici impedimenti. In virtù di questa posizione rispetto al passato, Nietzsche può agevolmente sostituire i termini “vero” e “falso” con “autentico” e “inautentico”. Diversamente dalla tradizione ottocentesca che poneva l’affermazione della “morte di Dio” in funzione dell’esaltazione dell’uomo, nella visione nietzscheana, lo spostamento è una manifestazione che si consegna all’ineluttabilità del suo esito, senza porre le premesse per il suo superamento. Piuttosto, l’affermazione della “morte di Dio” costituisce il crollo della civiltà europea, di modo che non si pone la premessa per una ripresa del problema nei termini del successo storico pratico della coscienza liberata dai suoi impedimenti, e neppure può essere semplicemente rilanciato il discorso su Dio.
Piuttosto, il crollo della sintesi moderna è l’occasione per affrontare la discussione radicale del discorso proprio della filosofia, al di fuori della svolta antropologica inaugurata dalla modernità. In questa prospettiva, la critica alla modernità condotta dal nichilismo nietzscheano, comporta la revisione della forma di pensiero propria della tradizione filosofica nella sua interezza. In effetti, la volontà di potenza ha una connotazione etica, giacché si propone come ciò che svaluta i valori invalsi, proponendone di nuovi, affrancati dall’egemonia della metafisica. Il suo limite starebbe nell’aver dedotto dai suoi principi i valori stessi, nel quadro di una prospettiva dell’essere trascendentale. Il Valore è l’Essere considerato dalla volontà: cioè il Bene. Verità, bontà, bellezza, non sono altro che “trascendentali” il cui fondamento analogico è l’Essere. Annullando la specificità del valore rispetto alla considerazione ontologica dell’Essere, la tradizione ha sacrificato l’insorgere di valori più autentici all’altare dell’Essere stesso. Questo ha dominato non solo la considerazione dell’essere vero, bensì anche l’etica. La critica nietzscheana punta dunque all’implicito del valore: l’Essere inteso come divenire anziché come assoluto. Secondo questa indicazione, occorre in primo luogo abbandonare il concetto di sostanza proprio della metafisica classica. In secondo luogo, si impone il superamento del privilegio accordato illegittimamente all’intelletto rappresentante. La metafisica tradizionale concepisce il conoscere come rappresentazione, cioè risponde alla domanda “che cosa è questo?”. In questa visione, l’intelletto si trova in primo piano, rispetto ad altri modi del pensare. L’essenza delle cose, còlta nel concetto, traduce la concezione di pensiero propria della metafisica classica: il pensare è il cogliere l’universale nel particolare. Nell’ambito di questo pensiero, il concetto di verità si può riassumere nella formula tipica della conformazione dell’intelletto alla cosa; ma più originariamente, la concezione della verità deriva ancora dalla volontà di potenza. Concepita come esattezza della rappresentazione rispetto alla cosa, la verità riduce il mondo all’errore.
La critica all’assolutizzazione del concetto conduce a una ricollocazione della scienza rispetto all’orientamento scientista invalso. La scienza non è altro che la conseguenza della scoperta del concetto legata a Socrate. Perché possa essere superato l’esito negativo proprio della tradizione classica metafisica e cristiana, occorre un capovolgimento di prospettiva e di valori. Non rimane che concludere sulla necessità di recuperare il discorso sull’immorale. Affinché sia consentita una nuova moralità, occorre impegnarsi per l’affermazione dell’immoralità, ove sia il soggetto a costruirsi i propri valori nell’ultima fase della metamorfosi dello spirito. Se, nella visione classica, la consistenza di ciò che si ritiene debba valere riposa tutta in Dio, fondamento della gerarchia dell’Essere, l’origine della nuova metafisica è l’univocità dell’essere: l’Essere è il divenire. La questione di Dio appare dunque come l’obiezione più grande nei confronti dell’Essere, giacché essi appartengono a dimensioni radicalmente eterogenee. Se dunque l’Essere deve intendersi univocamente, ciò non significa toglierne la problematicità, bensì, coglierlo in modo diverso: ciò implica una concezione nominalistica della realtà, concepita come sprovvista di ogni carattere di intelligibilità. La realtà sensibile non è elemento di razionalità, è un caso. Non vi può essere negli enti un rapporto comune di intelligibilità, perciò non è sostenibile una conoscenza dell’Essere, delle sue leggi, della sua ratio, della sua stessa intelligibilità, come date. La legge della realtà viene capovolta, giacché l’Essere stesso non può venire inteso come rapporto tra essenza ed esistenza, un rapporto che si attua in modi diversi, in cui l’Essere è comunissimo, semplicissimo, trascendentale. La concezione univoca dell’Essere che sfocia nel nominalismo destituisce l’intelligibilità delle cose. L’uomo non trova in esse se non ciò che egli stesso vi ha posto. La fondazione del valore sul reale è un inutile lavoro. Se l’Essere è univoco non può essere inteso come relazione tra essenza ed esistenza, di modo che non è più possibile la distinzione tra mondo reale e apparenza, e la nozione di verità ad essa connessa come forma dell’adeguazione appare insensata. Si tratta, alla fine, di elaborare un tipo di sapere alternativo alla rappresentazione, la cui forma sia legata alla volontà di potenza.
L’interpretazione risponde appunto al modello cercato, e allo stesso tempo permette di qualificare come fanatica l’ossessione della logica della rappresentazione. È appunto da quest’ultima che è derivata la crisi di pensiero dell’epoca moderna. Il guadagno del pensiero interpretante sta in ciò che in esso emerge la soggettività intesa come volontà di potenza, e dunque l’Essere trova la fondazione nel divenire, evitando la distinzione classica tra essenza ed esistenza. Certo, anche la metafisica classica parlava del divenire, ma inteso come passaggio dalla potenza all’atto. Il suo effetto è di avere misconosciuto la storia, giacché il divenire era soggetto di analisi in quanto in esso si cercava ciò che vi è di atemporale. L’interpretazione pone l’Essere come divenire. L’Essere stesso diviene perché è divenire, non ha fine né obiettivo, bensì, “innocenza”. L’Essere è privo della dimensione teleologica che la metafisica classica gli attribuiva. Nietzsche può così dire che il bimbo gioca perché gioca: anche l’Essere ha una dimensione ludica. La nuova ontologia è appunto questa mancanza di scopo. Essere e nulla sono dunque posti sullo stesso piano. Il nulla è ben lontano dall’essere qualcosa di reale, un no! tra due si! Occorre vietarsi ogni ricerca di intelligibilità. È proprio questo bisogno di spiegazione ultima che ha portato fuori strada, impedendo la considerazione dell’Essere come evento, come accadere. Il compito che si annuncia nella dottrina dell’innocenza dell’Essere risiede nella lettura dell’Essere stesso in funzione dell’evento. Ma ciò significa che la collocazione del senso per rapporto all’Essere, è una strada impercorribile.
Certo, in alcuni passi della sua opera, Nietzsche sostiene la necessità di una probità filologica di modo che sembrerebbe oscillare dal polo soggettivo al polo oggettivo. D’altra parte, afferma insieme il primato del detto sul non detto. Si tratta forse di un’oscillazione voluta? Ovvero, Nietzsche si risolve per l’uno o l’altro aspetto dell’interpretazione? Qui, non è questione di risolvere l’interpretazione in uno dei suoi tronconi, né di incoerenza manifesta o irrisolta; bensì è il modo nel quale Nietzsche manifesta la necessità del rimando della sfera dell’oggettivo a quella del soggettivo. Oscillando fra poli antitetici, il pensiero interpretante sfugge al pericolo di soffermarsi esclusivamente sull’uno o sull’altro polo. L’oscillazione conduce, per un verso, alla disgregazione della valorizzazione, per un altro, al recupero di un valore originario cui il testo stesso costringe. D’altra parte, se la conoscenza è un interpretare, questo non può non avvenire se non collocando il valore medesimo. Intesa in questa maniera, l’oscillazione è una forma di trascendimento attraverso la quale si avvia il tentativo di risolvere la verità e il valore dopo il nichilismo. Questo, rappresenta più il tentativo di salvare ciò che già regge l’urto del nichilismo, piuttosto che il crollo di ogni verità e valore.
La maschera: verità e metafora
Così parlò Zarathustra viene iniziato al principio dell’anno 1883. L’apertura racconta di tre metamorfosi che rappresentano il cammino di pensiero in cui si muove Nietzsche per comprendere il mondo. In esse lo Spirito si fa anzitutto cammello, porta il peso della tradizione e dei valori a cui essa fa riferimento, e si impegna a sopportarli; in seguito diviene leone, rigetta il peso dell’eredità trasmessa, distrugge e lotta contro i pregiudizi; infine si muta in fanciullo la cui emancipazione sia dalla tradizione, sia dalla negazione della critica, permette la creazione di nuovi valori. Leggiamo innanzitutto per disteso il passo che porta il titolo “Delle tre metamorfosi”:
Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, e il cammello leone, e infine il leone fanciullo.
Molte cose pesanti vi sono per lo spirito, lo spirito forte nel quale abita la venerazione: la sua forza anela verso le cose pesanti, più difficili a portare.
Che cosa è gravoso? domanda lo spirito paziente e piega le ginocchia, come il cammello, e vuol essere ben caricato.
Qual è la cosa più gravosa da portare eroi? così chiede lo spirito paziente, affinché io la prenda su di me e possa rallegrarmi della mia robustezza.
Non è forse questo: umiliarsi per far male alla propria alterigia? Far rilucere la propria follia per deridere la propria saggezza?
Oppure è: separarsi dalla propria causa quando essa celebra la sua vittoria? Salire sulle cime dei monti per tentare il tentatore?
Oppure è: nutrirsi delle ghiande e dell’erba della conoscenza e a causa della verità soffrire la fame dell’anima?
Oppure è: essere ammalato e mandare a casa coloro che vogliono consolarti, e invece fare amicizia coi sordi che mai odono ciò che tu vuoi?
Oppure è: scendere nell’acqua sporca, purché sia l’acqua della verità, senza respingere rane fredde o caldi rospi?
Oppure è: amare quelli che ci disprezzano e porgere la mano allo spettro quando ci vuole fare paura?
Tutte queste cose, le più gravose da portare, lo spirito paziente prende su di sé: come il cammello che corre in fretta nel deserto sotto il suo carico, così corre anche lui nel suo deserto.
Ma là dove il deserto è più solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa leone, egli vuol come preda la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto.
Qui cerca il suo ultimo signore: il nemico di lui e del suo ultimo dio vuol egli diventare, con il grande drago vuol egli combattere per la vittoria.
Chi è il grande drago, che lo spirito non vuole più chiamare signore e dio? “Tu devi” si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice “io voglio”.
“Tu devi” gli sbarra il cammino, un rettile dalle squame scintillanti come l’oro, e su ogni squama splende a lettere d’oro “tu devi”.
Valori millenari rilucono su queste squame e così parla il più possente dei draghi: «tutti i valori delle cose – risplendono su di me».
«Tutti i valori sono già stati creati, e io sono – ogni valore creato. In verità non ha da essere più alcun “io voglio”!». Così parla il drago.
Fratelli, perché il leone è necessario allo spirito? Perché non basta la bestia da soma, che a tutto rinuncia ed è piena di venerazione?
Creare valori nuovi – di ciò il leone non è ancora capace: ma crearsi la libertà per una nuova creazione – di questo è capace la potenza del leone.
Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere: per questo, fratelli, è necessario il leone.
Prendersi il diritto per valori nuovi – questo è il più terribile atto di prendere, per uno spirito paziente e venerante. In verità è un depredare per lui e il compito di una bestia da preda.
Un tempo egli amava come la cosa più sacra il “tu devi”: ora è costretto a trovare illusione e arbitrio anche nelle cose più sacre, per predar via libertà dal suo amore: per questa rapina occorre il leone.
Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve diventare un fanciullo?
Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì.
Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo.
Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito: come lo spirito divenne cammello, leone il cammello, e infine il leone fanciullo.
Lo stile perde ogni pretesa dimostrativa, avvicinandosi piuttosto ai testi sacri contro cui si era svolta l’opera distruttrice del leone. Il mito intende sollevare tutta la storia precedente dalla sua paralizzante bassezza, dalla colpa e dal risentimento per condurla alla innocenza del divenire, ponendola in tal modo in una ciclicità, il cui potere sia quello di ‘togliere’ ciò che di meschino e miserabile possiede la storia, per affermare solo ciò che merita di ritornare in un gesto che è ad un tempo ricapitolazione e nuovo inizio della storia. La condizione del nichilismo, e dunque dei moderni, è quella che qui viene chiamata dell’ultimo uomo. Questi, fiero delle sue conquiste tecniche, è privo di trascendenza, barbaro nella mescolanza degli stili. Tuttavia la polemica si spinge oltre la critica alla cultura per farsi predicazione e profezia.
Nella visione di Nietzsche, come dobbiamo intendere l’epoca moderna? Essa è caratterizzata da una forma di pensiero metafisico soggettivista ove si vuole porre il problema della filosofia come problema della coscienza. È ciò che Habermas indica col termine di ragione soggettocentrica. Mentre la metafisica classica fondava comportamenti e teorie in un principio oggettivo (salvo poi inserirlo in una logica di tipo analogico), l’epoca moderna verifica l’abbandono e il superamento del modo classico e medioevale della fondazione e della giustificazione. La svolta moderna consiste nel superamento della prospettiva oggettivistica in una superiore sintesi operata dalla soggettività intesa come principio del conoscere e perciò dell’essere. Il soggetto portatore della razionalità è proprio ciò che merita l’indagine. Tuttavia, proprio in quanto principio, la soggettività era un’astrazione, un macro-soggetto a cui tutti gli individui come tali appartengono. È ben vero che all’interno della modernità si davano varie declinazioni dell’essere della soggettività, tuttavia il quadro di riferimento rimaneva immutato, giacché esso poneva come principio del sapere la soggettività trascendentale. Il postmoderno ne segna il tramonto, realizzato attraverso vari percorsi.
Le difficoltà a legare le strutture della socialità e dell’intersoggettività al pensiero solipsistico della modernità, sorgevano dall’aver subordinato l’intersoggettività al pensiero. Il superamento della posizione moderna avvenne anzitutto ad opera del personalismo, segnatamente di Mounier. Veniva così a cadere l’ossessione metodologica che tanta parte ebbe nel determinare i processi della modernità. Nella visione moderna la procedura, il rigore nel processo di inferenza, sono la garanzia a-priori di ogni affermazione. Il postmoderno cessa di enfatizzare il metodo come unica prospettiva razionale rigorosa, consentendo il recupero di una cultura della complessità di cui il moderno era ignaro. Infine, la ingenua rappresentazione moderna circa la storia intesa come progresso illimitato, viene smascherata come un puro pregiudizio. Le affermazioni di Nietzsche sull’uomo sono contraddittorie. Contraddizione, forse, voluta e cercata:
“Da Copernico in poi l’uomo scivola dal centro fino a una x”
Altrove Nietzsche parla esplicitamente di rimpicciolimento dell’uomo. L’uomo rimpicciolisce per far posto ad un ‘al di là’ del soggetto? Ora, l’uomo postmoderno non è più, certo, il centro del mondo, ma, anzitutto, non è più centro a se stesso. Così, anche Marx propone un uomo decentrato nei confronti della storia, mentre Freud decentra la coscienza verso la struttura. Quanto alla posizione di Heidegger sul tema della differenza, è stata sovente fraintesa. Heidegger, in conformità proprio alla sua critica alla metafisica soggettivista, opera il discorso della differenza, non tanto a livello del soggetto, bensì sul piano del fondamento. Ma è proprio qui ove risiede la differenza tra Nietzsche e lo stesso Heidegger. Quest’ultimo, non sarebbe in grado di percepire ciò che si pone oltre l’essere come l’essere dell’uomo. E l’uomo decentrato è precisamente Zarathustra, l’unico capace di prendere sul serio la propria consistenza sul nulla.
Il discorso sull’essere operato da Heidegger, non può in alcun modo essere scambiato con quello nietzscheano sull’uomo e sul senso. In luogo del fondamento l’uomo trova la stanchezza. Una ricerca vana assilla il cercatore di ogni radice giacché il profondo ama la maschera. Bisogna smascherare il profondo. Tuttavia non è possibile sottrarsi allo sguardo sull’abisso, alla ricerca del fondamento. Così che l’impegno paradossale di tutta la filosofia nietzscheana risulta proprio questo guardare al profondo, ponendosi al di là di quelle affermazioni che si spacciano immediatamente per soluzioni. Qui risiede la forza demitizzante del nichilismo, per il quale vale lo sforzo di smascherare ogni affermazione illusoriamente banalizzante. È dunque questione di gusto e di ardore per la verità insieme. Il superamento della prospettiva propria della ragione soggettocentrica avviene attraverso l’enfasi teoretica che conduce all’oggettività. Tuttavia, non si tratta di una riabilitazione della tradizione, quanto, piuttosto, di una riedizione che guarda alla serietà greca con lo sguardo del fanciullo occupato a giocare.
La prospettiva nietzscheana ci invita a considerare che occorre pensare più radicalmente la soggettività moderna, proprio per non diluirne la portata. Il principio della soggettività è intrascendibile, ma, a motivo di ciò, tende ad essere còlto come ciò che preoccupa lo sguardo dell’uomo, privandolo di ulteriori prospettive. Il pensiero ipostatizzato non è più tale. Si tratta dunque di un tentativo di compimento della soggettività trascendentale, la cui mira consiste, fra l’altro, nel voler abbandonare l’idiosincrasia antropocentrica. Il principio della soggettività, così come veniva elaborato dalla coscienza moderna, poneva l’essere dell’uomo come misura. Ciò che occorre è precisamente una diversa volontà di promozione che non collochi più l’uomo al centro, e, al tempo stesso sia disponibile a rivedere l’intero impianto della filosofia nei riguardi dell’uomo stesso. Ricollocato nella prospettiva del senso, l’uomo perderebbe quella rigidità oggettivistica che l’ha perduto. Ma perché ciò sia ancora possibile occorre concepire l’essere dell’uomo in termini alternativi alla concezione unitaria e sostanziale dominante nella tradizione occidentale. Non si tratterebbe di un abbandono dell’uomo, bensì di elaborare una concezione realmente più complessa della sua umanità. La megalomania nascosta nella visione sostanziale è una stoltezza. Ciò che accade non ha senso in se stesso. Il senso delle cose è più una domanda che una soluzione. Eppure, l’abbandono della prospettiva moderna non può voler significare il ritorno al passato remoto della classicità, giacché, diversamente, il tormento rimarrebbe vano. Piuttosto, occorre riconoscere a ciò che è attualmente per me, mancanza di senso compiuto e ordine. Le cose non hanno senso, tuttavia occorre mantenere la nostra cura per esse.
Alle cose mancano ordine e legame per due motivi essenziali: in primo luogo, giacché la soggettività non può essere il principio che le ordina in una sintesi superiore, il ‘mondo’ non può apparire come un tutto ordinato. Inoltre, esse non hanno senso come tali, a prescindere dalla coscienza dell’uomo; esse sono solo per il soggetto che le coglie. Alla fine, è proprio la concezione soggettivista a fare problema. Essa impedisce una lettura della soggettività più ‘umana’. È segnatamente questo l’intento di Nietzsche: collocare su diverse basi il soggetto, smascherando l’inganno. Non esiste, dunque, un senso delle cose, ma ciò che l’uomo vi ha posto per superare l’inquietudine del mondo. Il senso non pertiene alla realtà, non è dato, bensì proviene da elementi diversi. Il senso non è ciò che appare dietro il velo dei fenomeni, ma è imposto da una volontà di senso che sottrae l’eterno fluire dal dominio del non-senso.
Gli stili di Nietzsche
Se la metafisica classica ha concluso il suo ciclo, dove passa la collocazione dell’uomo? Il tentativo di risposta di Nietzsche è molto articolato. Anzi, dobbiamo considerarlo l’elemento qualificante della sua opera, a tal punto che si potrebbe benissimo considerarla un’antropologia fondamentale. Precisamente, in essa si tratta di portare allo scoperto le radici della metafisica della soggettività per ricollocare la posizione umana, il cui pregio risiede in ciò che essa offre una declinazione teorica della nuova dimensione della soggettività, nonostante — ma forse sarebbe meglio dire, grazie — le determinazioni della risposta non siano definitive. Ciò che consegna all’ambiguità il pensiero di Nietzsche è il suo stile, formulato intenzionalmente in forma ambigua, precisamente per non attribuire ad alcune affermazione un valore risolutivo. Lo stile di Nietzsche si situa al di là degli approcci unilaterali per i quali Nietzsche avrebbe dato soluzioni definitive o radicalmente inefficaci, ovvero nessuna soluzione.
Il principio della soggettività nasce con l’umanesimo? Certo, tra essi occorre un certo rapporto, ma nella visione di Nietzsche, non si identificano. Ciò che opera il passaggio dall’epoca classica all’epoca moderna è la scienza, quella stessa scienza che ha operato processi, appunto, dal centro alla x, dopo Copernico, che comportano una riduzione dell’uomo, togliendogli la centralità rispetto al mondo e a se stesso. La svolta moderna è consistita segnatamente in questa perdita di centratura ad opera della scienza. È l’uomo centro e misura di tutte le cose? La crisi scientista ha messo in evidenza che la metafisica dell’umanesimo e la metafisica della soggettività non sono identiche. L’uomo decentrato dal centro deve però essere fonte del senso, significatività. Ora, circa la questione se Nietzsche sia anti-umanista, apparirà chiara la prospettiva nietzscheana. Si tratterebbe di anti-umanesimo se per questo intendiamo lo spiazzamento dell’uomo dal centro. Diversamente, occorrerebbe dire che Nietzsche non condivide appieno la svolta scientista, sottoponendola a critica. Nella sua visione, l’aver perso la centralità del reale non è aver perso la significatività come tale. Il senso, dunque, non è dato, come ciò che è già presente. Non è dato, ma posto, anzi imposto a un divenire che di per sé gli è indifferente, di modo che la realtà, l’eterno fluire del divenire, è il regno del non senso. Gli interrogativi dell’uomo folle (af. 125 della Gaia Scienza), dove? come? chi mai? dicono proprio l’impossibilità di determinare un senso oggettivo. Non è un espediente retorico, un’ampollosità o un’amplificazione, bensì giustificano una consapevolezza inaudita dell’abbandono della fondazione oggettivistica del senso. In realtà, quella di trovare nella realtà un senso che essa non ha e che vi è posto dall’uomo a fronte del caos del divenire, è una sottile astuzia, se non un inganno. L’attribuzione di un senso ordinato alla realtà nasconde all’uomo stesso il fatto che è lui medesimo a porvelo. Il soggetto non si rassegna al caos del mondo, piuttosto, l’angoscia che ne viene esige che venga attribuito un senso al caos. L’universo non è né perfetto, né nobile, né melodioso, bensì manca di bellezza e sapienza, tende al caos ed è privo di unità. La realtà tutta è priva di senso e ordine, né si può dir diversamente della storia, i cui esiti negativi vanificano quelli positivi. Ancor più, se ci si incammina nella prospettiva di affermare la costituzione della realtà come tale, prescindendo dall’interpretazione, ciò che ne deriva è un’affermazione oziosa. Non c’è datità che non sia un’interpretazione della datità. Non c’è fatto senza senso, non c’è dato, ma la sua interpretazione. Presupporre di poter prescindere dall’interprete, affermando la cosa in sé, non supera l’obiezione kantiana, per cui la cosa in sé, il noumeno, è inconoscibile, sebbene sia qualcosa, precisamente, la cosa in sé. L’apparente obbiettività è un grado della soggettività, è un esser presente a…
Non l’essere, dunque, ma l’uomo, dà senso. Ciò che caratterizza il discorso nietzscheano non è tanto la dualità soggetto-oggetto, bensì la contrapposizione che separa e congiunge, da un lato il divenire, dall’altro, la volontà di senso. Ciò che rende necessario concepire in unità i due lati della questione è precisamente il rischio di ipostatizzarli in una visione oggettivistica che preterisca il problema rappresentato dalla volontà di senso. Ora, ciò che muove il divenire, è la volontà di senso, come è emerso dalla critica alla metafisica. Era segnatamente questo il compito della critica: condurre a riconoscere la necessità della volontà per la comprensione del divenire. Il senso, infatti, non è un dato, bensì è posto dalla volontà come la verità dell’essere in quanto volontà di potenza. Il soggetto pone il senso dell’oggetto; in che modo? Il tema della volontà di potenza significa che il soggetto pone il senso ponendo sé come oggetto. Sebbene si possa notare la consonanza idealistica, vi è una differenza profonda. Qui il soggetto pone la cosa in sé per poterla pensare; la cosa è pensata in quanto il soggetto riconosce se stesso in essa. Ciò significa: la cosa pensata è la volontà di potenza. Il concetto di sostanza che sosteneva la concezione dell’uomo nel quadro della metafisica classica è radicalmente posto in discussione. Certo, Nietzsche riconosce la necessità del soggetto, ma solo se con esso intendiamo la volontà di potenza. Questa non è la volontà di un soggetto sostanziale, né la qualità di un soggetto, meglio, non è proprio la volontà di alcuno. Sostanzialità del soggetto e oggettività del senso sono tra esse correlative. Nella visione nietzscheana, la soggettività deve essere intesa come puro processo, al di là della concezione che vede in essa una relazione che abbia due poli. La soggettività è caratterizzata per le sue molteplicità e pluralità. La sua realtà è lo sfuggire nell’estasi. Delineata in tal modo, la volontà di potenza non può essere confusa con la facoltà di un soggetto, piuttosto, essa non è mai facoltà di alcuno che non sia il puro processo.
L’esito nichilistico non può essere contrastato dai valori classici, giacché la modernità non è una deviazione da quelli bensì la loro attuazione più elevata, come dominio umano sulla terra, nello strapotere della ragione conoscitiva, nel dominio incontrastato della scienza e della tecnica, nella inconsapevole morte di Dio che tutto ciò comporta. Non si tratta della restaurazione romantica a fronte della distruzione della tradizione operata dal terrore rivoluzionario, né dell’ottimismo ottocentesco sulle possibilità dell’umanità professato dai progressisti.
Nietzsche inaugura una riflessione che sarà densa di conseguenze per il pensiero europeo del ‘900. Il destino dell’ultimo uomo non può essere evitato che se ad esso si contrappone l’oltreuomo, un uomo mai apparso prima nella storia (benché Nietzsche pensi a tratti alla civiltà del Rinascimento italiano per modellare la sua figura), capace non di restaurare valori nichilistici quanto di creare nuovi valori, impressionanti e oltraggiosi perché si discostano dagli ideali dell’umanesimo. Di qui lo sguardo nuovo sulla crudeltà, e il desiderio di dominio. Ora, è legittimo chiedersi in che misura il superuomo si distacchi dai valori nichilistici dell’umanismo. Se dunque, alla diagnosi del nichilismo europeo non corrisponda un suo adeguato superamento, bensì l’oltreuomo costituisca il suo ultimo inveramento. La volontà di dominio, che nell’oltreuomo appare come volontà di potenza, volere che vuole eternamente se stesso, costituisce forse essa stessa il compimento del nichilismo, divenuto sì pienamente consapevole di sé, ma incapace di autotrascendersi? L’insuperabile commistione fra oltrepassamento e farsa deve considerarsi il fallimento di una filosofia dell’avvenire, o piuttosto è proprio essa che preserva la ricaduta nell’esito nichilistico? In ogni caso, Nietzsche pone l’itinerario di Zarathustra nel mezzo di una tensione fra ascesi critica e commedia che pare essere originaria della sua esperienza. Essa introduce il tema essenziale dell’opera, cioè il pensiero dell’eterno ritorno che sta al centro del terzo libro. Questa idea conserva per Nietzsche un’enfasi polemica di contro alla concezione cristiana del tempo come sviluppo lineare, con un principio, la Creazione, e una fine promessa, la Redenzione, nei confronti della quale Nietzsche recupera la concezione arcaica di un ritorno circolare del tempo, privo di creazione e redenzione. L’idea non è un parto originale di Nietzsche, bensì ha origini remote. Tuttavia ciò che la distingue dalle sue ascendenze prossime e remote, è il carattere visionario che l’accompagna. Infatti, il tratto in cui compare il mito dell’eterno ritorno porta il titolo La visione e l’enigma, in cui Zarathustra sottolinea l’imperscrutabilità della propria esperienza.
Giacché era una visione e una previsione: – che cosa vidi allora per similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire?
Zarathustra si confronta, nella visione, con il suo doppio, il nano, lo spirito di gravità, il quale predice che l’opera sua gli si rivolgerà contro. Questi si domanda quale sia il peso più difficile da portare nella lotta per la trasvalutazione di tutti valori e il superamento del nichilismo; ne conclude che il peso estremo sta in ciò che tutta la fatica sia destinata a ripetersi eternamente.
Coraggio è però la mazza più micidiale, coraggio che assalti: esso ammazza anche la morte, perché dice ‘Questo fu la vita? Orsù! Da capo!
L’eterno ritorno supera ogni finalità dell’azione giacché l’esistenza vuole se stessa incondizionatamente ed in tal modo si porta al di là del bene e del male. Ma, giacché la volontà dell’avvenire non può vendicarsi su quanto è stato compiuto per essa, e poiché essa stessa, liberata dall’ipoteca teologica, è l’esistenza in quanto voluta, l’esistenza stessa diviene colpa e punizione per se stessa. Essa ripete incessantemente colpa e azione proprio per il fatto che accadono prima di volere se stessa. Volendo partecipare alla colpa rappresentata dal peso dell’esistenza che le è toccata in sorte, essa non lo può. Lo sdegno contro il tempo che è già avvenuto lo svaluta sino a considerarlo degno di perire, a meno che la volontà non redima se stessa divenendo non-volontà. Ma Zarathustra si oppone addossandosi il passato (così io volli). Piuttosto che non volere egli vuole il passato, passando da un tempo rettilineo indefinito ad un ciclo che rivuole quanto è già avvenuto.
Questa doppia volontà è l’Amor fati. Così Nietzsche distingue la sua redenzione dalla fede in un destino superiore agli dei propria degli antichi, e dalla convinzione moderna della libertà del volere. Nessuno infatti può, in un mondo morale, rinunciare alla prospettiva di cambiare almeno se stesso. La morale è possibile in un mondo di fini e trasformazioni, ma l’eterno ritorno annulla ogni teleologia dell’azione e redenzione dell’uomo. Ogni reintegrazione è impossibile, impossibile ogni storia diversa, ogni male cambia di senso per il fatto stesso che non si ripropone alcun cambiamento, volendosi eternamente come tale. Questo è almeno l’avviso del nano, e dunque l’interpretazione non può arrestarsi a questo punto. Zarathustra gli mostra allora una porta carraia in cui confluiscono due sentieri, tutto il passato e tutto l’avvenire convergenti sulla soglia dell’attimo in un infinito decorso. Qui, si apre forse una dimensione ulteriore dell’eterno ritorno: non tutto ritorna, ma solo ciò che possiede una potenza affermativa: i modelli classici del passato, riappaiono incessantemente come soglia per tutto ciò che non vuole morire ed è in grado di trascendersi. Quanto nel passato segna la debolezza del finito, merita invece di essere superato, secondo le modalità della storia critica. Questa filosofia della storia fa corpo con la teoria della volontà di potenza, intesa come capacità affermativa, che Nietzsche va elaborando in questo periodo. La quarta ed ultima parte dello Zarathustra si colloca nel quadro dell’esperienza del cammino intrapreso e dell’enigma della visione. Ma ciò complica ulteriormente l’intelligenza della visione, giacché in essa determina un eterno meriggio che non appare potersi conciliare con il carattere dinamico della volontà di potenza e quindi con l’innocenza del divenire.
Il nichilismo europeo
Nietzsche sente di essere inserito profondamente nel suo tempo, e tuttavia rappresenta al tempo stesso qualcosa di decisivo per il presente stesso che, come tale, non accede alla sua verità.
Ciò che io racconto è la storia dei prossimi due secoli. Io descrivo ciò che viene, ciò che non può fare a meno di venire: l’avvento del nichilismo. Questa storia può già ora essere raccontata; perché la necessità stessa è qui all’opera. Questo futuro parla già per mille segni, questo destino si annunzia dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie sono già in ascolto. Tutta la nostra cultura europea si muove in una torturante tensione che cresce da decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile ad una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più ed ha paura di riflettere. – Chi prende qui la parola sinora non ha fatto altro che riflettere:: come filosofo ed eremita d’istinto, che ha trovato vantaggio nell’appartarsi, nel restar fuori, nel ritardare, come uno spirito audace, indagatore e tentatore che già si è smarrito in ogni labirinto dell’avvenire;…che guarda indietro mentre narra ciò che avverrà, come il primo nichilista compiuto d’Europa, che ha già vissuto in sé sino il nichilismo sino alla fine, e ha il nichilismo dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé…
Il mondo degli intellettuali incomincia a interessarsi alla sua opera, persuadendolo di essere ormai famoso. Progetta un’opera in quattro volumi sulla volontà di potenza e un libro sull’eterno ritorno. Nell’anno 1888 lavora all’Anticristo, progettato inizialmente come una sezione dell’opera sulla volontà di potenza e sulla trasvalutazione di tutti i valori. Scrive Il crepuscolo degli idoli, Ecce Homo, Nietzsche contra Wagner, Il caso Wagner. Nietzsche è colmo di entusiasmo, è convinto infatti di poter ben presto raggiungere una diffusione “planetaria” della sua opera, in particolare dell’Anticristo che ormai considera come l’opera unica sulla trasvalutazione di tutti i valori. In questo stato d’animo, si sente chiamato alla redenzione del mondo. Convoca un congresso di sovrani a Roma, nomina un proprio ambasciatore a Parigi, redige un promemoria per le corti europee contro il Reich tedesco. Scrive i cosiddetti “biglietti della follia”, indirizzati agli amici, firmati ora “Dioniso”, ora il “Crocifisso”. Le sue condizioni peggiorano; viene condotto in clinica, poi in casa della madre. Il 20 aprile 1897 ella muore, e la sorella lo conduce a Weimar, ove muore il 25 agosto 1900.
Quanto della riflessione nietzscheana è segnato dalla follia? Questione tanto più urgente quando si consideri che l’opera di maggior influsso sul pensiero del ‘900 è quella a ridosso dell’euforia torinese. Ma, forse, come dice Focault nella Storia della follia, non ha senso vagliare quanto sia affetto da follia e quanto ne sia immune nell’opera di Nietzsche. La follia alligna più nel silenzio che segue l’opera piuttosto che in essa. Il testo, anche se si tratta dei biglietti della follia, rimane pensiero che si riallaccia con coerenza all’opera complessiva. Il concetto di Wille zur Macht sviluppa e riassume in sé tutta la riflessione nietzscheana, prendendo le mosse dall’acquisizione del periodo illuministico circa la necessità di superare la pura critica della cultura per creare nuovi valori.
Ma i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano: «così deve essere!»: essi determinano in primo luogo il «dove» e l’ «a che scopo» degli uomini e così facendo dispongono di tutto il lavoro preparatorio di tutti gli operai della filosofia, di tutti i soggiogatori del passato – essi protendono verso l’avvenire la loro mano creatrice e tutto quanto è ed è stato diventa per essi mezzo, strumento, martello. Il loro «conoscere» è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è – volontà di potenza.
La conoscenza e la morale si configurano come attività reattive: di fronte all’onnipotenza della volontà nella scienza e nel comportamento, l’uomo si ritrae atterrito. La volontà di potenza si autonega, dando origine al nichilismo europeo. Mettere a tema la volontà di potenza significa pertanto portare all’evidenza il rimosso, il nascosto che si annida nel pensiero metafisico occidentale, cioè la forza energetica e prospettica che si nasconde dietro il pathos per la verità e il martirio. Ciò comporta un certo disincanto, ma non come qualcosa di depressivo o tragico. La volontà non è unica e terribile, ma una molteplicità di voleri in lotta fra loro, una potenza affermativa e liberatrice che l’umanità si era negata attraverso la rimozione volta a controeffettuare la volontà di potenza. Se la volontà affermatrice non avviene come tale nella storia che, al contrario, ci mostra la dissimulazione del volere, la reazione e il tormento, la volontà di nulla che affligge l’uomo, tuttavia, una dimensione dell’esistenza dispiega liberamente la volontà di potenza: si tratta dell’arte. Questa, come creazione di forme, stili, maschere tese a potenziare la vita redime il mondo dalla nichilistica affermazione della conoscenza e della morale.
L’arte e nient’altro che l’arte! Essa è la grande creatrice delle possibilità di vivere, la grande seduttrice della vita, il grande stimolante per vivere. L’arte come l’unica forza antagonista superiore, contro ogni volontà di rinnegare la vita, come l’elemento anticristiano, antibuddhistico, antinichilistico per eccellenza. L’arte come redenzione dell’uomo della conoscenza: di colui che scorge il carattere spaventoso e problematico dell’esistenza, anzi lo vuole scorgere, di colui che ha la conoscenza tragica. L’arte come la redenzione dell’uomo d’azione: di colui che non solo scorge e vuole scorgere il carattere spaventoso e problematico dell’esistenza, ma che lo vive, e vuole viverlo, dell’uomo tragico e bellicoso, dell’eroe. L’arte come la redenzione del sofferente: come la via verso condizioni nelle quali al sofferenza è voluta, trasfigurata, divinizzata, in cui la sofferenza è una forma della grande delizia.
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