Salomé e il mito della femme fatale

Scritto da F. Bertoglio

Il 01 Feb 2017

Salomé in Mt 14,1-12

In quel tempo il tetrarca Erode ebbe notizia della fama di Gesù.

Egli disse ai suoi cortigiani: «Costui è Giovanni il Battista risuscitato dai morti; per ciò la potenza dei miracoli opera in lui».

Erode aveva arrestato Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in prigione per causa di Erodìade, moglie di Filippo suo fratello.

Giovanni infatti gli diceva: «Non ti è lecito tenerla!».

Benché Erode volesse farlo morire, temeva il popolo perché lo considerava un profeta.

Venuto il compleanno di Erode, la figlia di Erodìade danzò in pubblico e piacque tanto a Erode

che egli le promise con giuramento di darle tutto quello che avesse domandato.

Ed essa, istigata dalla madre, disse: «Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista».

Il re ne fu contristato, ma a causa del giuramento e dei commensali ordinò che le fosse data

e mandò a decapitare Giovanni nel carcere.

La sua testa venne portata su un vassoio e fu data alla fanciulla, ed ella la portò a sua madre.

I suoi discepoli andarono a prendere il cadavere, lo seppellirono e andarono a informarne Gesù

Come altrove abbiamo avuto modo di osservare, il testo biblico, seppur essenziale e icastico, è una messa in scena complessa: Erode, Erodiade, il fratello del re – Filippo, la figlia di Erodiade, Giovanni il battista, i suoi discepoli, sono i personaggi di una brevissima quanto intensa tragedia, incorniciata da un’indagine sull’identità di Gesù che ne costituisce lo sfondo narrativo. Il lettore, a motivo dell’affermazione di Erode, si chiede a questo punto chi sia Gesù e Matteo lo istruisce su chi non è: Giovanni il battista.

Si tratta di modelli, non semplicemente di persone reali. I modelli di Gesù e di Giovanni vengono confrontati e se per Erode corrispondono, non è così per Matteo. Evidentemente c’è qualcosa nel profeta che non appartiene, non può appartenere, anche al cristiano. Si tratta, dunque, di un passo didascalico a commento dell’interrogativo sull’identità del cristiano che appartiene alla nuova comunità di Gesù.

Veniamo al passo, dunque. Gli attori coinvolti non sono in verità molti, ma sono complessi i loro legami. Il lettore deve esercitare il massimo sforzo interpretativo per comprendere il testo. Molte lacune devono essere colmate perché il testo appare piuttosto reticente. Gli unici a parlare sono il Re Erode, Giovanni battista e la figlia di Erodiade. Le loro battute sono quasi lapidarie.

Erode apre il discorso dichiarando che Gesù è in realtà il battista. È un modo di vedere le cose: quello che si vede è altro da ciò che appare. Gesù non è Gesù, ma Giovanni. Nulla di nuovo sotto il sole: Gesù appartiene alla serie dei profeti. La sua singolarità è cancellata. Questa mancanza di realtà è interessante. La dovremo indagare.

Il secondo a parlare è proprio Giovanni, l’essenza di Gesù secondo il Re. Ebbene, in Giovanni parla la Legge: non è lecito che il Re tenga la moglie del fratello. Anche questa battuta è formidabile! C’è qualche posto dove è lecito il contrario? La questione, inoltre, è proprio il fatto che sia lecito tenersi la moglie del fratello o piuttosto che sia strano volere proprio la donna del fratello? E perché tenere e non prendere?

La terza a parlare, infine, è la figlia di Erodiade, di cui il testo non dice nemmeno il nome tanto è reticente. Il suo dire è terribilmente estraneo a quanto ci aspetteremmo da una giovane ragazza d’Israele. Le sue parole sono veleno che uccide. La giovane ha un potere contrario alla vita e alla maternità. In altre parole è quanto di più contro natura si possa immaginare: una donna che solitamente dà la vita qui la toglie parlando. Il che costituisce un particolare di assoluto rilievo, visto che è lei a chiedere la vita di un uomo, di un prigioniero inerme, di un giusto d’Israele, di un profeta di Dio. Il testo tace: il mandante dell’omicidio rimane nell’ombra. La madre Erodiade, invece, è ben nota.

L’interpretazione è facilissima: una donna tanto feroce quanto ambiziosa chiede e ottiene facilmente che la giovane figlia pretenda la vita di un uomo, che muore tragicamente. La riottosa tristezza del Re non può nulla e l’esecuzione è immediata e brutale. Una giovane marionetta ha ottenuto con stolida ingenuità quello che la madre ha lucidamente voluto. A tal punto la figlia ama la madre da volere una volontà non sua e uccidere per essa. La testa di Giovanni il battista è il prezzo che la figlia deve pagare alla madre per allinearsi con lei nella lotta per il trono.

Gli artisti, da Caravaggio a Klimt, concentrano tutta l’attenzione interpretativa su Salomé – la figlia di Erodiade e Filippo, affascinati e sedotti dal personaggio negativo, dalla complessità dei suoi sentimenti e della sua situazione esistenziale. Il testo, però, procede in modo opposto: la situazione familiare genera il personaggio finale che nemmeno viene chiamato per nome, quasi si voglia esercitare il massimo pudore possibile. Perché? Perché il testo interpreta Salomé senza giudicarla. Le sue azioni crudeli sono prodotte dagli eventi che le hanno suscitate. Non è lei la femme fatale.

Piuttosto, occorre ragionare sul ruolo che ricopre il personaggio oscurato in tutta la messa in scena: Filippo, il fratello del re. Come spesso accade il testo omette l’essenziale, nascondendo la verità più che rivelandola. Il lettore deve fare lo sforzo di interpretare per strappare al testo la sua verità. Leggere un testo biblico è pur sempre un’operazione d’arguzia perché il testo ha in ogni caso un timbro oracolare, una rapidità da dipanare, una reticenza da colmare. Ciò che caratterizza ogni interpretazione biblica è precisamente questo cercar favole chiedendo al testo ciò che dimentica di dire, piuttosto che quello che apertamente dice.

Questo è proprio ciò che vogliamo dimostrare a fronte della tradizione interpretativa che accusa le due donne e omette qualsiasi responsabilità maschile. Si tratta, a tutti gli effetti, di una teologia al femminile quella che vogliamo intraprendere. Siamo di fronte, forse, a una sfida di genere a cui non intendiamo sottrarci, pena avvalorare l’idea che questa giovane donna possa essere una scatenata assassina preda della propria volontà di potenza, forse come tutte le donne cacciatrici per le quali l’uomo, sia pure il Re, è preda inerme. Se l’interpretazione estremizza i propri termini, infatti, finisce per proporre una caricatura della vita piuttosto che la vita stessa, forse per paura di vederla in tutta la sua conturbante complessità.

Non è un caso che Caravaggio isoli la giovane figlia di Erodiade – la Salomé di Giuseppe Flavio – dal contesto, circondandola di due personaggi maschili: il boia che brutalmente le offre sul bacile l’oggetto dei suoi desideri e il discepolo che provvederà con pia devozione a seppellire il maestro. Tra la efferata crudezza del boia e la pia compassione del discepolo sta una Salomé fin troppo matura per essere la ragazzetta del testo biblico. Quindi responsabile assai più di una ragazzina, perciò colpevole.

Se non se n’era resa conto prima, Caravaggio la dipinge nel momento in cui, ora, sa di essere diventata grande, matura e responsabile. Una volta compiuto, il delitto matura la giovane che improvvisamente s’è fatta donna. Più o meno come dev’essere avvenuto a Eva, la peccatrice che dopo il peccato dev’essersi sentita, appunto, in colpa. Una dinamica tipicamente femminile conduce la donna alla consapevolezza di sé attraverso la colpa. L’uomo, ricordiamolo, sin dai tempi di Adamo s’è sottratto protestando la propria innocenza arrivando a insinuare invece la colpevole responsabilità del Padre onnipotente. Nella lettura tipologica si nasconde dunque una questione educativa che sta a cuore a Caravaggio.

Si tratta, più in generale, di una dinamica tutto sommato adolescenziale che ritrae il momento in cui ogni uomo sa di esser diventato tale, perdendo l’innocenza. In tal modo la giovane Salomé è il prototipo di ogni uomo, il modello del processo di crescita attraverso il quale l’uomo perviene alla consapevolezza di sé. Percorso formativo al massimo grado, quello di Caravaggio, che dimostra come il grande artista sappia intuire un valore positivo assoluto in un vangelo capace di rivelare il bene attraverso il male.

Il modello è fin troppo noto per essere messo in discussione: si tratta del processo universalmente religioso per il quale l’uomo diventa tale nella complessa e dolorosa dinamica che va dal male al bene attraverso la conversione e la confessione della colpa. D’altra parte, che uccidere un uomo inerme sia una colpa lo capisce anche un bambino. Ma è solo il particolare della testa mozzata a rendere permanente il senso di disgusto per la colpa compiuta e quindi a formare la coscienza. Il male educa, forse quanto e più del bene. Questo Caravaggio lo sa e lo dice nel suo straordinario dipinto Salomé e la testa di Giovanni il battista (1607).

Ciò significa, in ultima istanza, che per Caravaggio Salomé è una classica brava ragazza che si è trovata ad agire male in una situazione assai più grande di lei e perciò ne soffre intimamente. Si tratta, dunque, di una personificazione della coscienza, piuttosto che dell’incoscienza e della malvagità. Lo dimostra il suo ritrarsi dal corpo del reato dichiarando a se stessa e allo spettatore la sua intima estraneità ai tragici fatti accaduti. Responsabile, dunque, ma non moralmente colpevole. Riconoscendo la colpa come tale, infatti, la giovane protagonista dimostra tutta la sua maturazione interiore e la coscienza acquisita. L’attimo della conversione la redime, umanizzandola.

Quello che però il quadro tace è il motivo del delitto. Il movente. Si può dire che Caravaggio fissi la scena sul suo esito perché completamente catturato dagli stereotipi offerti dalla letteratura religiosa universalmente diffusa a quel tempo: Salomé è come Eva, ma Eva è l’umanità stessa, peccatrice e indegna. L’interpretazione tipologica sosteneva la visione caravaggesca del vangelo inserendola pienamente e senza sorprese nell’alveo dell’interpretazione teologica recepta. Interpretazione tutto sommato già moderna, perché il conflitto morale è tutto interiore, soggettivo, fissato in un mondo personale che è privato di qualsiasi spessore storico. Di qui la scelta di fare di Salomé l’icona di se stessa. Le icone dicono, forse, ma non raccontano. Il loro tempo è un eterno presente che cerca la natura dei personaggi piuttosto che la loro storia.

Il merito permanente di Caravaggio sta nell’aver colto la natura morale del personaggio incriminato facendone l’icona della coscienza piuttosto che della natura corrotta femminile o dei peggiori impulsi dell’umanità stessa. In ciò risiedono anche il favore e la simpatia con cui guardo all’opera caraveggesca. Non sfugga, certo, che, in questa sede, l’intenzione dell’autore non ha per me alcun interesse poiché misuro l’opera in quanto tale piuttosto che nel suo valore di documento di un autore o di un’epoca sia pur note nelle loro linee generali.

È alla secessione del contemporaneo Klimt che si deve guardare per osservare una perversione inquietante connaturata al personaggio. L’enfasi ora è sul carattere iconico del mito che assurge a tipo del demoniaco femminino. Salomé, in questa stagione, è una giovane ragazza perversa. A volte vendicativa, a tratti scatenata, sempre mortale per l’uomo. In scena, in questo caso, è il femminile antifrasi del maschile.

Due tipi opposti si scontrano: il razionale e l’irrazionale. La violenza delle passioni femminili incarnate in Salomé contro i limiti imposti dalla Legge del Padre rappresentate da Giovanni. L’uomo dabbene contro la femmina lasciva. La civiltà contro la natura. Il mondo morale contro l’immorale. Antitesi tra opposti, perciò antitesi religiosa e mitica, fascinosa al massimo grado quanto terribile. Il suo esito è la morte tragica del rappresentante della Legge. Nulla può opporsi, fermare, limitare la marea della vita che dilaga. Salomé è destinata a uscire vittoriosa dallo scontro. La voluttà è già una vittoria della natura contro la cultura e la società.

In questo senso Wilde e Klimt si accomunano in un unico applauso alla Dea madre incarnata nella giovanissima Salomé che prima soggioga il Re poi ottiene completa vittoria sul pio Giovanni riducendolo a ninnolo dei propri capricci vendicativi. Un mondo dove le donne giganteggiano, cacciatrici, su uomini impauriti e imbelli, pressappoco come accade nel libro dei sogni di Federico Fellini, ma con ben altri esiti compositivi. Il conflitto è ancestrale, antico come la natura umana. La Donna è finalmente la nuova vincitrice della Storia imponendo la propria natura selvaggia sulle timide regole maschili. Volontà è il nuovo idolo da adorare, ed è tutto femminile.

Ma il simbolo è duplice anche in un altro senso. Salomé è l’alter ego di Giuditta, la coraggiosa eroina degli Apocrifi che si presta a sedurre e uccidere Oloferne, il malvagio capo dell’esercito assiro, solo per la salvezza del popolo ebreo e senza provarne alcun piacere. Klimt, nel cui studio andavano a farsi ritrarre le donne dell’alta borghesia viennese, percorreva almeno due registri femminili. Da una parte il demoniaco, pericoloso e ferino di Salomé, Pallade Atena, della Nuda Veritas o delle sue sirene marine eroticamente lascive e provocanti; dall’altra il sentimentale, dai registri un po’ floreali.

E tuttavia anche da queste immagini femminili un po’ laccate si sprigionava comunque un sottile veleno mortifero. Sia che fosse passiva come un fiore sia che soggiogasse l’uomo come una fiera, dunque, la donna di Klimt rimaneva un pericoloso demone o piuttosto un’idea che univa in modo sotterraneo l’immaginario simbolista alla letteratura greca con le sue figure di femmine castratrici e vendicatrici, fossero Medea o Circe. La stessa mitologia cui in quegli stessi anni – siamo nel 1909 – faceva riferimento la psicanalisi freudiana prima, junghiana poi.

In questo senso, il testo evangelico è un pretesto, superato d’un balzo per dire altro. Si tratta della postmoderna rivincita del mito sulla storia, della natura sulla civiltà. Di un ritorno ad Oriente molto in voga a quel tempo persino in materia teologica e religiosa, come testimonia plasticamente il formato verticale che scimmiotta l’estetica nipponica. Un duplice viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio. All’indietro verso le origini naturali e ferine dell’umanità; a est verso Oriente. L’Asia mater contro l’Occidente civilizzato e corrotto. Il lembo dell’interpretazione è il rovescio del precedente, ma il motivo è il medesimo: superare la realtà per dire altro di tipico. Troppo angusto il testo. Troppo scarno il personaggio che esso rappresenta. La narrazione troppo rapida per esser giusta.

Il fastidio intorno al testo e alle sue grossolane approssimazioni rispetto alla vita suscita una nuova narrazione finalmente libera dalla fonte originaria cristiana, capace di rivelare con luci dorate una scena che ora dice la conturbante creatività della creatura piuttosto che la rassicurante genealogia del Creatore. L’oro che decora il quadro scenico dice l’uomo più che il divino iconico. Ma ciò che splende non è né giusto né buono, né bello. Bensì il contrario. L’antifrasi è doppia, tripla, multipla: tra uomo e donna prima, tra donna fiore e donna fiera poi; opposizione tra umano e divino, naturale e sociale, infine. Antifrasi elevata a sistema, il rigetto è totale e rigoroso come il righello del disegnatore.

Tuttavia, il rovescio rivela la sua dipendenza dal sistema precedente, il suo carattere reattivo, ancora incapace di autentico superamento di ciò che l’ha preceduto: se in Caravaggio trionfa la coscienza in Klimt è il suo opposto a prevalere. Entrambi però tipizzano, esasperano, eccedono, offrendoci una caricatura della realtà. Ed è proprio questo, forse, un possibile compito dell’arte: concentrandosi su un particolare lo rappresenta assolutamente, dimenticando proprio il particolare stesso.

La funzione ermeneutica dell’arte sta proprio in questo suo esasperare i toni ponendo l’istante sotto la luce deformante di una lente. Deformata, la realtà appare nelle sue infinite possibilità: ipotesi, ricerca. Divenire più che essere. Una realtà potenziata e dinamizzata e per ciò stesso deformata garantisce all’artista un accesso al reale estraneo al buon senso comune che si ferma al consueto e al rassicurante. La funzione dell’arte è dunque quella di poter garantire la libertà dell’essere, il suo poter essere così e anche altrimenti.

Non dimentichiamo però che anche il testo evangelico non è il reale! Si tratta pur sempre di una narrazione il cui valore è ancora da indagare se è vero che anche Caravaggio e Klimt hanno fatto ben altro che leggere. Il conflitto tra storia evangelica e arte è falso perché presuppone di sapere già quale sia il significato dato del testo rispetto al quale l’esperienza artistica è invece libera ricerca di senso.

Torniamo al testo, dunque. In esso abbiamo letto che una giovane donna chiese la testa di un uomo a motivo dell’ostilità che questi dichiarava in merito alle seconde nozze della madre. Questa infatti era tenuta dal Re come moglie di secondo letto. In che senso era tenuta? Forse qualcuno reclamava la donna come legittima sposa di prime nozze? Forse Filippo, primo marito di Erodiade e padre di Salomé protestava per il matrimonio di quella col fratello perché non riconosceva il divorzio?

Se così fosse Giovanni il battista eleverebbe nientemeno che la Legge di Dio contro il divorzio di Erodiade da Filippo: non è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello significherebbe dunque che non è lecito il divorzio in terra d’Israele. Se, però, Erodiade e Filippo erano divorziati lo dovevano essere in ragione di un diritto che non poteva essere quello fondato sulla Legge di Dio, bensì sullo Jus Romae. Il diritto romano come quello greco, infatti, prevedevano il divorzio. Quello ebraico il ripudio, non senza molte riserve sulla sua convenienza e liceità.

Giovanni, dunque, rimprovera il Re di essersi unito in seconde nozze con Erodiade, prima moglie di suo fratello, secondo il diritto romano, non secondo le usanze del diritto ebraico fondato sulla Legge di Dio. Finisce in galera, dunque, non perché Erodiade e il Re fossero legati illegittimamente, bensì perché protestava vibratamente che lo fossero secondo le leggi di Roma e non secondo la Legge di Dio.

Nella Gerusalemme neotestamentaria l’opposizione tra il diritto dello Stato e quello religioso era ancora più aspra che ai nostri tempi: lo Stato contempla e permette il divorzio e le seconde nozze di chiunque voglia sciogliere il proprio legame. La Chiesa stenta a riconoscere tale diritto secondo la Legge di Dio. A quei tempi il conflitto era anche maggiore perché Roma dominava lo stato d’Israele e il suo era il diritto di un usurpatore. Non bisogna però immaginare un Israele compatto nello schierarsi contro i nuovi usi e costumi pagani. Tra gli stessi fedeli le scuole erano varie e in contrasto fra loro sulla composizione del diritto civile con quello religioso, sul valore coercitivo della Legge dei Padri o sul suo valore relativo da comprendere alla luce dei mutamenti storici. Il nuovo mondo piace a molti, anche a Corte.

Se dovessimo dipingere il quadro ora saremmo in imbarazzo. le cose da dire sono cambiate sotto i nostri occhi. In Caravaggio e in Klimt una giovane donna è protagonista di un crudele omicidio. Qui è protagonista un caso dibattuto tra rigoristi e riformisti. Per gli uni vale solo la Legge di Dio, per gli altri il diritto dell’uomo ha valore nelle cose tra uomini. Il Re d’Israele agisce ormai in coerenza al diritto romano; il profeta pretende la sua sottomissione al solo diritto divino. L’attacco è frontale e l’esito davvero tragico.

Erode temeva forse di dover arrivare a questo? Certamente. Il ballo di Salomé fu in ogni caso l’occasione della resa dei conti perché con la danza la giovane si allineava alle posizioni riformiste della madre e del sovrano, tradendo nello stesso tempo la tradizione dei rigoristi e le soffocanti pretese del padre-padrone. In questa visione delle cose Erodiade, Erode e la figlia di quella, Salomé, sono allineati in una lotta di potere che vede fronteggiarsi due forze antitetiche: lo Stato e la Legge di Dio difesa dai tradizionalisti. Sappiamo come sono andate le cose. Tuttavia…

Cosa spinge una donna e una figlia a tradire il marito e il padre per un altro uomo, addirittura della stessa famiglia? Se possiamo capire l’ambizione di Erodiade di divenire la moglie del Re non comprendiamo quella di Salomé. Nessuna figlia, infatti, volterebbe le spalle al padre per futili motivi economici o di potere, volendo ancora essere rispettata e onorata dal suo entourage. Né si macchierebbe di un delitto così feroce e iniquo senza un movente adeguato. Dobbiamo dunque pensare che Giovanni rappresentasse per la nuova famiglia del Re un notevole inciampo e un costante richiamo alla tradizione del padre Filippo che quella tutelava.

La giovane Salomé, dunque, reagiva non solo all’aggressione del profeta, ma anche a quella dei tradizionalisti allineati col padre a difesa del costume contro il vento di rinnovamento che consentiva nuove nozze al Re e alla madre. In questo senso Salomé è l’icona del nuovo che spazza via il vecchio, del rinnovamento che pretende il sacrificio dei numi tutelari del passato, del dialogo con lo straniero e i suoi valori contro l’arroccamento autarchico e autoreferenziale sui valori della tradizione e della “nazione”. La sua crudeltà è la crudeltà della gioventù che sostituisce chi l’ha preceduta. È quindi la protesta di chi si sente giudicato a partire da principi che non può più condividere perché superati dalla storia.

Ma questo è un movente sufficiente per giustificare un omicidio? Ne dubito. Non si uccide un uomo incarcerato e ormai inoffensivo per affermare ciò che è già scritto nel divenire, e cioè che il nuovo seppellirà il vecchio. Lo si uccide se il suo giudizio è diventato intollerabile e ingiusto sia per la madre che per la figlia. Cosa può unirle nella protesta sino a tal punto? Lo si capisce se si considera la storia dal punto di vista delle cause e degli effetti. Quello che la madre e la figlia compiono è un vero e proprio tradimento del mondo del padre e del marito. Tradimento che ha senso solo se immaginiamo queste donne come vittime, a loro volta, di un tradimento.

Per questo la loro protesta è così formidabile: con l’esecuzione di Giovanni esse spazzano via l’ipocrisia di un mondo vecchio che consentiva al marito di tradire e al tempo stesso di ritenersi protetto dalle tradizioni e dalla Legge di Dio, rifugiandosi tra le maglie di una Legge troppo generale per essere capace di autentica giustizia. Con essa si vendicano di Filippo e della Legge distruggendone il simbolo che la tutela. Così finisce chi ritiene che l’uomo sia fatto per la Legge e non la Legge per l’uomo; chi non ha pietà, né comprensione umana, né autentica giustizia.

Conclusioni

In Salomé, dunque, parla anche un cristianesimo nascente che prende posizione intorno alla Legge dei Padri e medita di uscirne, sfuggendo alle maglie di un mondo che per esso è ormai già il passato. Ed è un tormento, certo, realizzarlo. Perciò il testo simpatizza con la giovane proteggendone il nome. Essa ha plasticamente realizzato quello che con analogo dolore hanno dovuto fare i primi cristiani uscendo dall’ebraismo dei Padri e sottraendosi alla tutela della Legge per solcare l’aperto mare verso l’Occidente greco e latino che rappresentavano il nuovo: il mondo del codice piuttosto che quello della Legge che, non dimentichiamolo, ha ratificato l’esecuzione capitale dell’eroe che la nuova comunità celebra e ancora pretende l’esclusione degli eretici dalla Sinagoga.

È un nuovo tipo di giovane donna, quello che emerge qui: forte come un lupo, scaltra come una volpe, ostinata e sfrontata come un’orsetta, essa vuole il nuovo mondo spazzando via il vecchio. È dunque la metafora del discepolo cristiano che traluce qui. Di chi osa uccidere il mondo del Padre scegliendo il Figlio, senza nascondersi il dolore che l’operazione comporta. Perciò in questa ammissione si redime, si umanizza, prende coscienza di sé e del nuovo che rappresenta, assumendosene dolorosamente la responsabilità morale, civile, umana.

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