Liaisons tra Religione e Arte

Scritto da F. Bertoglio

Il 02 Mar 2018

È online Ideogrammi, il mio ultimo libro

Merita di farci un pensiero, alla questione, ma più in generale, perché se la serie di opere che sto per presentare ha in comune diverse forme di violenza, condivide con il sacro la necessità di raccontarla. La Scrittura cristiana stessa é un racconto, anzi, una serie complessa di racconti raccolta dalla comunità primitiva a partire dall’esperienza traumatica dell’esecuzione capitale dell’eroe e dall’esclusione di tutti dalla comunità ortodossa che ora li respinge come eretici e deviati. E sebbene già sostanzialmente presente in varie forme nella comunità coeva non è forse casuale che lo stesso canone ebraico abbia probabilmente visto la luce sotto la spinta degli eventi drammatici che in quel torno di tempo minacciarono l’integrità della comunità e dunque il suo patrimonio letterario. Vale a dire: i canoni sono probabilmente fenomeni reattivi. Tu sei quello, io questo, paiono dire, mentre definiscono confini e stabiliscono limiti su terreni che però sono in buona parte comuni e fino a un certo momento condivisi. Se io sono questo ora, prima eravamo un noi che l’io e il tu condividevano e che la specificazione successiva può anche negare ma non dissolvere. Anzi, tanto più forte é la negazione quanto più stretta doveva essere l’appartenenza a un comune terreno, a una comune radice, a una casa comune che ora si vuole abbandonare per essere se stessi abitandone una nuova. Lo storto non si può certo raddrizzare e va lasciato andare scuotendo la polvere dai calzari, ma fino a un certo punto è reazione e negazione; oltre quel punto, affermazione di sé e vita. Probabilmente il cristianesimo e l’ebraismo condivisero con l’esperienza comune dell’uomo gli stessi rapporti che caratterizzano le famiglie quando due fratelli si dividono l’affetto di un solo genitore. Il primo lo pretende tutto per sé quando l’altro più giovane ne insidia il posto per non soffocare. La rottura è sempre possibile, l’unità in ogni caso compromessa, la coesistenza impossibile, dunque ci si divide. Ricordare questa iniziale divisione traumatica significa sottolineare il caos iniziale, lo scombussolamento identitario, il meticciato che hanno preceduto l’identità attuale, l’armonia interna, le forze centripete che hanno concorso al mantenimento dell’ordine recepto perché la vita non sia vissuta a mezzo senza quelle, bensì tutta intera, pressappoco come chi sa che per affermarsi nella vita non basta esser buoni e gentili ma anche aggressivi e ostinati. Analogamente, bisogna ammettere che la violenza é fenomeno che il sacro condivide con l’universale esperienza umana reinterpretandola in direzioni del tutto particolari senza obliterarla del tutto pressappoco come avviene già nell’arte. Che la questione sia solo rimossa piuttosto che risolta é questione di stile, infatti: la rimozione instupidisce perché è una vita solo a metà, mentre la risoluzione è una somma che porta con sé gli addendi, realtà aumentata. In entrambe i casi gli esiti possono essere iscritti nell’esperienza religiosa come in quella artistica, sebbene con diverse fortune al seguito. Nel frattempo ci siamo assicurati di non guardare il nostro solo orticello costruendo un castello su uno stuzzicadenti. È questione di metodo, dunque di civiltà e architettura, mirando a costruzioni vivibili da tutti. Perciò diciamo religione e vediamo opere il cui contenuto non è necessariamente religioso, anzi, ma narra e già in ciò è atto anche religioso. E in quanto il contenuto violento impone una riflessione sul delitto e sul castigo, ovvero sull’emozione con cui si apprezza e valuta questa o quell’esperienza traumatica del vivere, la visione implica l’ascolto anche della religione come testimone informata dei fatti e comunque uno spettatore teso all’ascolto del dolore di vivere dei protagonisti come cosa che lo provoca e umanamente lo promuove nella civitas. Questione anch’essa religiosa come testimonia il contributo che le religioni hanno dato alla civilizzazione umana quando non l’hanno fieramente ostacolata in nome di se stesse, come, peraltro, hanno fatto gli stati, i partiti, le lobby, le multinazionali, le famiglie, i padri e le madri sui figli, gli uomini sulle donne, ma oggi anche i figli sui genitori, qualsiasi associazione umana abbia avuto ben più a cuore la propria affermazione che l’umana convivenza, la propria elezione più della promozione di tutti. Anche in questo senso tutto politico arte e religione hanno molto in comune giacché entrambe narrano immagini, figure, forme, modi, tempi e luoghi in ogni caso iscritti nelle interrogazioni che via via le polis avanzano alle arti dei racconti e delle memorie.

Anche questo cespite di argomentazione merita d’essere almeno un poco dissodato. Come ben ha dimostrato M. Holbwachs nel suo bel volume “La memoria collettiva”, la memoria stessa può essere considerata un’istituzione, un’icona, un dato, un’opera; può venire affrontata cioè come problema delle forme istituzionali che l’immagine del passato assume nella coscienza dei gruppi e dei modi e delle forme di questa istituzionalizzazione. Ora, l’istituzionalizzazione della memoria non è la semplice collettivizzazione dei ricordi giacché tra il ricordo collettivo e il ricordo individuale sussiste una relazione dialettica. Perciò il passato non è mai stabilito una volta per tutte bensì continuamente riscritto nel circolo posto tra memoria interiore (autobiografica) e memoria esteriore (storica). La loro distanza consente e legittima la riscrittura della storia e la sua ripresa in epoche successive senza che l’una possa mai esaurire l’altra. D’altra parte, la Storia (scritta) e la memoria collettiva non sono meramente sovrapponibili giacché accanto alla Storia scritta sopravvive una storia vissuta in continua evoluzione così che la Storia e la memoria collettiva non sono affatto due campi sovrapponibili sebbene non contraddittori né totalmente contrari. Ora, la memoria collettiva è una corrente di pensiero continua che non ha nulla di artificioso giacché mantiene il passato solo in quanto ancora vivo e presente nella coscienza del gruppo che lo conserva, mentre la grande Storia si fissa nella tradizione documentaria a tal punto che con essa si identifica. In tal modo dobbiamo affermare l’esistenza di più memorie collettive a fronte di una sola Storia documentaria di modo che se si può scrivere una Storia universale una memoria universale nemmeno può esistere. I loro procedimenti sono completamente diversi: quando la Storia astrae e semplifica, la memoria collettiva indugia, specifica e analizza; viceversa, quando la Storia descrive analiticamente la memoria collettiva passa oltre e semplifica confondendo le carte. In tal modo, lo sguardo dello storico tende ad essere imparziale ed obbiettivo, quello di un gruppo che fa memoria collettiva, tende ad essere di parte per consolidare l’identità di sé.

In questo panorama s’iscrive un ulteriore passaggio: quello dall’oralità alla scrittura. La seconda costituisce in un certo qual modo la morte della prima così che la Storia comincia là dove finisce la tradizione, momento in cui la memoria sociale si estingue e decompone. Nè sarebbe necessario fissare per iscritto un ricordo se questo fosse ancora vivo in un gruppo. È a questo livello che la memoria religiosa interviene. Essa non costituisce il trapasso della memoria collettiva nella Storia giacché costituisce il medium che segna il passaggio a un nuovo momento storico, sociale e culturale del gruppo che s’identifica nella nuova identità trovata nel proprio passato e nel patto costituzionale sancito per il proprio futuro pressappoco come avviene in una Dichiarazione: il preambolo fa memoria del passato filtrandolo alla luce di un principio che intesse l’intera costituzione in ragione di un patto che ne costituisce a tutti gli effetti una rilettura a favore di tutti.

Vale a dire che la memoria religiosa funziona in modo significativamente diverso da quello attraverso il quale si costituisce la memoria Storica. Innanzitutto concentrazione e parcellizzazione costituiscono due strategie peculiari della memoria religiosa che fissa i ricordi a precise località: il Sinai, la tomba di Davide, il Tempio; ma anche: canto di Davide o parole di Salomone. Essi funzionano da catalizzatore di modo che i ricordi effettivi del passato vengono stravolti, decronicizzati e delocalizzati. I ricordi si fissano su luoghi, personaggi e cose materiali riconfigurandosi in funzione della disponibilità alla memoria collettiva. In altre parole, la memoria è tale perché non è ricordo in quanto ricostruisce il passato solo in funzione alle esigenze, agli interessi, alle attese della società presente, proprio come accade anche all’esperienza artistica che costantemente reinterpreta i luoghi comuni rendendoli nuovamente disponibili per l’oggi.

È precisamente questo che è occorso durante la stesura della storia deuteronomistica come è accaduto durante la scrittura dell’opera di  Qohelet. Ma, come ha dimostrato recentemente un bel libro di Matteo Nucci, la medesima cosa è accaduta durante l’immane stesura dell’opera platonica. Anche in questo lo spirito religioso d’Israele mostra la sua analogia con processi ed eventi storici e culturali squisitamente umani, sottraendosi così alla percezione tipicamente eccentrica e francamente ingenua della coscienza religiosa moderna e contemporanea. La differenza, come avemmo già modo di sottolineare, sta nel tentativo di riconciliazione con quell’eredità che pure la storia deuteronomistica s’incaricava di criticare. In altri termini: se Platone manda a spasso il mito riconfigurandolo in un nuovo tipo di linguaggio che lo emendava purificandolo dalle sue tendenze drammatiche, la nuova temperie culturale giudaica ha mantenuto un rapporto più complesso col mito: da una parte l’ha riproposto realisticamente, dall’altra ha sancito una precisa distanza da esso attraverso l’istituzione della Legge. Da ciò la sua straordinaria sopravvivenza e insieme la sua complessa ambiguità.

In ogni caso, dunque, sia che si voglia farne valere l’ambigua costituzione, sia che la si chiami come testimone informata dei fatti, sia che la si osservi come fenomeno mnestico, la religione ebraico cristiana intrattiene con l’arte una complessa liaison che, tradotta nei bronzi, o nei marmi, o nei colori, o nelle forme, o nei tempi e negli spazi degli artisti, perdura e persiste proprio come religione non più solo rivelata, bensì anche ripresa e quindi con quell’aggiunta di volontà e intenzione umane che di tempo in tempo la precisano, la dissodano, la disseminano, in una parola rendono viva una parola che altrimenti rischierebbe d’essere solo più morta. Questo appunto il nostro interesse, non solo per l’arte o la religione bensì per la liaison che le trattiene fecondamente insieme.

Oscilleremo dunque tra l’una e l’altra senza prender partito altro che per questa relazione amorosa, innamorati più dell’Amore che degli amanti. Spero non sia giudicato un difetto, ma onestamente, dovevo pur dirlo in premessa perché il lettore non cerchi qui un dommatismo che non troverà o un partito che non ho, se non quello generalissimo dello scrittore. Perché l’arte più sublime, per me, è pur sempre quella della parola scritta che le riassume tutte quante pur dedicando tutta se stessa alle relazioni, alle forme, ai colori, ai modi e alle misure del reale.

Cosa troviamo, dunque, in questo libro? Una ricerca e un compito eseguiti in dialogo costante con la tradizione, anche iconografica, e la Scrittura. Il suo carattere occasionale e rapsodico gli impediranno comunque di essere più che due chiacchiere intorno al testo e alla fede di tutti. E questo è un bene, finalmente. Fatene l’uso che ritenete più appropriato e opportuno.

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