Le sacrifice d’Isaac, di Marc Chagall, ė un’opera di sensibilità umana e teologica senza pari nel quadro dell’arte dedicata all’antico testamento. Isacco è in primo piano, in una posa che esprime l’inerme destino dell’agnello sacrificale sotto il coltello del carnefice. Il padre, Abramo, appena in secondo piano, solleva l’arma del sacrificio tenendola rivolta all’insù, verso il cielo; lo sguardo, inebetito, è rivolto a un angelo compassionevole che, a braccia aperte e mani tese con fare amichevole, lo invita a fermarsi. Un velo d’oro dipinto sul torace d’Isacco ne associa la figura alla divinità, la cui luce solare splende dai cieli sin dalla creazione dell’uomo. Un intenso rosso ricopre l’intera figura di Abramo e si diffonde come una fiamma intorno a lui. Nel ciclo de Le message biblique, il rosso ė il colore delle passioni fiammeggianti: amore e odio. Nella Scrittura, il rosso dipinge il volto di Caino prima che s’abbandoni alla furia fratricida. Per Marc Chagall, una passione terribile sconvolge l’anima del patriarca sul luogo del sacrificio. La pira di legna ė pronta, la lama sollevata, la vittima inerte aspetta la fine, nuda e fragile come il primo vagito di Adamo. Una nube bianca avvolge la scena in primo piano, avvisando il lettore della celata presenza di Dio. Un dio nascosto veglia sui due e un messaggero interviene prima che si compia l’irreparabile. L’azione si ferma nell’istante in cui Abramo viene chiamato dall’angelo, la lama del coltello rivolta all’insù, il braccio teso oltre la figura del figlio. Ci aspetteremmo una scena diversa, in effetti. Abramo dovrebbe avere il braccio sollevato e la lama rivolta all’ingiù. Qui ha già il pollice levato, quasi volesse liberarsi del coltello, lasciandolo cadere a terra, pentito e attonito per ciò che sta facendo. In ogni caso, non ė il modo corretto di tenere un pugnale da sacrificio. Se avesse voluto uccidere il figlio avrebbe dovuto tenerlo in modo completamente diverso: rivolto verso il basso, verso la vittima. E poi lasciarlo cadere aprendo la mano incalzato dall’amorevole comando del dio. Perché dunque Chagall ha rappresentato la scena in tal modo? Ė un errore evidente. E, come sempre, le licenze artistiche sono il frutto migliore da cogliere per l’interprete. A me pare chiarissima la tesi di Chagall. Il coltello ė tenuto in tal modo perché non ė usato dal patriarca, bensì solamente mostrato. A chi? Basta seguire la direzione del braccio per capirlo. Dritto dritto in linea con il braccio di Abramo, Chagall ci mostra colei che ė la vera vittima che Abramo vorrebbe colpire: la madre di Isacco, Sarah. Non si impugna un coltello in quel modo per uccidere una vittima che sta sotto di sé. Lo si impugna così se si vuole mostrarlo a qualcuno che sta di fronte a sé, quasi a dire: guarda cosa faccio, adesso! Abramo, dunque, non avrebbe mai avuto intenzione di sacrificare il figlio, per Marc Chagall, bensì di punire la moglie minacciandola di farlo. Ed in effetti Sarah si dispera, le mani al volto, minuscola, avvolta da una tenebra blu. Un dissidio terribile sconvolge la coppia e la posta in gioco ė la vita del figlio. Perché? Cosa spinge Abramo a minacciare Sarah di togliere la vita al figlio tanto amato e avuto solo in vecchiaia? Perché tanto rancore?
Per capirlo dobbiamo conoscere l’antefatto narrato da Genesi. Si racconta che i due non potevano aver figli a causa della momentanea sterilità di Sarah. La cosa appariva a tal punto tormentosa da spingere la donna a fare una scelta azzardata che si rivelerà un disastro. Propose, infatti, al marito di prendere con sé la sua schiava Agar e di giacere con lei, così che il figlio nato da questa potesse essere legalmente adottato dalla matriarca. Il diritto del tempo consentiva queste pratiche alle donne che avessero schiave sottomesse e mariti compiacenti. E così avvenne, secondo la legge. Ma una donna che metta nel letto del proprio uomo un’altra donna non dovrebbe sottovalutare i rischi che una simile operazione comporta. In primo luogo il figlio avuto dalla schiava finì per legare Abramo e Agar più di quanto Sarah non s’immaginasse. In secondo luogo, la schiava, una volta dato un figlio – Ismaele – al capo clan, non si sentì più solo tale, bensì incominciò ad avere una percezione di sé completamente nuova, fino a pretendere una posizione maggiore di quella della matriarca. Come a dire: sarai pure la moglie, ma sono più donna io di te, visto che non sei nemmeno capace di far figli. Un insulto insopportabile, un pasticcio familiare inaudito. La scelta di Sarah si rivela un errore madornale. Il posto della matriarca vacilla. Inizia una sottile e velenosa guerra tra donne che avrà termine solo quando finalmente Sarah partorirà Isacco e potrà cacciare con il primo pretesto Agar e il figlio Ismaele. Cacciare? In effetti non fu lei a farlo, bensì pretese ed ottenne che fosse il marito ad abbandonare i due sull’orlo del deserto, senza alcuna possibilità di sopravvivere. Fu così che Abramo perse il primo figlio e la donna che glielo aveva dato. Dopo essersi allontanato dall’orlo dell’abisso sul quale aveva abbandonato figlio e amante, poteva tornare tutto come prima? Abramo poteva tornare a casa lieto e leggero come un fringuello dopo essersi liberato di un simile fardello? Se Sarah lo pensava, era una colossale ingenuità e una presunzione deplorevole circa il proprio amore. Una donna che spinga il proprio uomo a tradire gli affetti più cari fino a tal punto coltiva un’idea di sé del tutto sbagliata, ma soprattutto non ha a cuore l’uomo che ama e che l’ha amata. Questa è l’origine del malheur che tormenta il patriarca spingendolo a un inaudito “non è giusto” che lo condurrà alla pira su cui giace Isacco. Obbedendo a un dio di giustizia e rancore, il patriarca rivela tutta la sua disperazione per come sono andate le cose fino a levare il coltello sul figlio inerme. Se l’avesse calato Abramo sarebbe rimasto interamente catturato nella logica del tempo, reiterandola: occhio per occhio, dente per dente; figlio per figlio. Lo vuole la giustizia, assicurata anche teologicamente. La sua vittoria è la vittoria della civiltà e della fede, quando altri hanno soggiaciuto al rancore fondando il proprio culto sul sacrificio. L’aver dato ascolto ad un’altra voce, messaggera d’un amore misericordioso, eleva Abramo e con lui l’intera storia a una concezione di Dio per la quale non c’è giustizia senza amore. Questa è la giustizia di Abramo e il fondamento della fede. Una fede che è atto d’amore ed elevazione della civiltà a un tempo. Il riscatto dell’ingiustizia non passa per la punizione e la violenza della pena, bensì per la consapevolezza.
Certo, se proseguissimo la lettura fino all’epilogo di Genesi ci renderemmo conto che la storia narrata ne Le sacrifice d’Isaac non è senza conseguenze, anche problematiche. Tuttavia, il seme è gettato e l’errore riconosciuto come tale. D’altra parte, non è vero che lo stesso Pietro rinnega Gesù proprio nel momento dell’estrema prova, abbandonandolo a se stesso di fronte alla folla inferocita? E non è vero che l’intera fede della chiesa si sostiene appunto sul pianto di Pietro quale riconoscimento e ammissione del proprio errore? Come vediamo, le fedi non ci propongono ideali umani irraggiungibili o personaggi incredibili, bensì storie umane rispetto alle quali la Scrittura si comporta come un discernimento critico di cui anche l’artista Marc Chagall è capace. Da questo punto di vista, non c’è alcuna differenza tra la Scrittura e l’Arte. Anzi, potremmo dire che l’Arte può essere un prolungamento della Scrittura nella direzione di una sua intelligenza e comprensione attuali, di cui noi abbiamo bisogno per appropriarci del testo scritto e comprenderlo alla luce della nostra esperienza personale.
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