La tunica di Joseph – Ouverture

Scritto da F. Bertoglio

Il 12 Dic 2012

La tunica di Joseph – Ouverture

«Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica con maniche lunghe. I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non riuscivano a parlargli amichevolmente». Gn 37,3

La Scrittura inizia con la lettera ebraica “bet”, “casa” (ּב). La sua forma, infatti, deriva dall’ideogramma di una abitazione, la cui parete principale, quella che ne costituisce la soglia, è abbattuta. Una dimora, dunque, aperta, spalancata. In modo tale che se un ospite sopraggiunge è ben accolto, ma anche libero di andarsene, lietamente. Lo stesso vale per gli abitanti, anch’essi liberi di entrare e uscire senza impedimenti. Potremmo tradurre dunque l’incipit della Scrittura così: “In principio era la casa”. E non sbaglieremmo. Il secondo significato della lettera “bet” è “cuore”, in ebraico, la sede della verità. A seconda che ci sia un puntino centrale o meno, la casa è abitata col cuore, che la governa facendola gravitare intorno al suo centro. Diversamente, la casa è “scorata”, “disorientata”. In questa prima lettera, la Scrittura infonde tutta la sua sapienza, perché l’inizio appare a ciascuno fondamentale per la propria vita, segnandolo in modo profondo sin dai primi tempi dell’infanzia. Nel bene come nel male. È importante cogliere appieno la dinamica di questo “come”. La Scrittura sa bene come la casa sia un luogo opaco: essa può essere certamente un luogo lieto e sereno, ma anche un luogo abitato da inquietudine profonda e abitudini (habitus) laceranti. Non è però negando l’ambiguità che si governa una dimora. Bensì addomesticandola come un focolare; domestico, appunto. L’abitazione che ha in mente Dio, infatti, non è governata da una rigida osservanza di norme e precetti. La lettera “bet” si erige su due assi, uniti in modo plastico e sinuoso: quello verticale incontra l’orizzontale unendosi ad esso con una curva dolce ma decisa. Così è per l’uomo che voglia avere una vita solida come una casa ben costruita. La base della lettera, infatti, è il suo “piede”, che poi è il terzo significato della lettera “bet”. Esso sostiene la casa anche se dovesse essere costruita sulla sabbia. Se non trova la roccia sul fondo, è il piede stesso a sorreggerla sulle sue solide fondamenta, così che si possa addirittura camminare sull’acqua, vale a dire: semplicemente sostenuti dalla giustizia. In tal modo, la Scrittura rivela sin dall’esordio il suo destinatario: la famiglia che abita la casa. E ne dice la forma ideale e sempre possibile: una casa ospitale è retta sulla giustizia e governata con cuore sincero, perciò i suoi abitanti sono liberi di entrarvi o uscirvi. Così, sin dall’inizio, la Scrittura immagina se stessa come l’avvio di una creazione che appare ora come una casa o un tempio, ora come un cosmo, ora come un uomo, ora come un popolo, ora come una terra, infine come un libro (o un uomo-libro, Gesù di Nazareth), per riprendere poi il fluire delle forme a partire dalla sua ultima figura. Il flusso del testo scorre come un fiume dal fondo della lettera e finisce con il corpo di un uomo che, avendo ricevuto in sé lo Spirito, ne è stato abitato. Eppure, come l’origine che sta prima dell’inizio, non l’ha trattenuto per sé, ma l’ha donato ai suoi fratelli, perché abitasse anche in loro. Il lettore, però, è invitato a entrare nel testo senza varcarne la parete posteriore in un inutile tentativo di trovare ciò che cerca oltre il testo che si svolge a partire dalla dimora iniziale. Piuttosto, deve seguirne il flusso come un barcaiolo segue il fiume: il volto rivolto alla fonte, la prua alla foce così che il futuro sia alle sue spalle, incerto e numinoso, ma anche inevitabile come lo scorrere di un fiume. Fino alla fine, facendo del proprio corpo la dimora stessa di quella fonte che inizialmente l’ha generato, divinizzandolo, finché si possa dire: “Ecce homo”.

Da una parte, dunque, il testo presuppone un lettore competente o disposto a diventarlo, dall’altra contribuisce lui stesso a crearlo nel corso della lettura esigendone l’attiva cooperazione. L’opera, infatti, si fa mentre ne operiamo la lettura, così che il testo appare allo stesso tempo documento mentre è atto poetico, resoconto mentre si configura come testo letterario. In termini narrativi, ogni testo richiede di essere collocato su tutto l’arco disteso tra i due poli di lingua e storia, onorandone tutte le referenze attraverso una completa modulazione dei metodi. In termini tipografici, occorre considerare il testo biblico nel suo valore di icona che ripresenta l’evento nel momento stesso in cui lo mostra nella mediazione della parola scritta. Tuttavia, il valore di un testo si esercita nell’uso, vale a dire nell’interpretazione, così che, nato da una parola orale e fissato nella parola scritta, esso suscita nuovamente un’oralità che nuovamente si fissa nella tradizione interpretativa, pressappoco come avviene per una partitura musicale. Il testo, in effetti, suona, come ben sa la metrica, dall’inizio alla fine e, come tale, va suonato in modo che non si esaurisca in se stesso. Il suo valore di partitura ne fa essenzialmente un’azione drammaturgica, ben rappresentata dall’attività della lettura liturgica in cui l’interprete e il lettore divengono al tempo stesso coautori del testo, coinvolti in modo permanente entro la cosa del testo. Il testo allora diviene la regola di un’infinita possibilità di interpretazioni fedeli ma originali, capaci di definire, come in un dramma teatrale, un mondo di possibilità che delineano la qualità del lettore, che sia o meno discepolo e testimone. La Scrittura è dunque un testo artistico ben definito, una partitura che si trasforma in opera d’arte nell’atto dell’interpretazione e viene agito nella lettura comunitaria da cui è nato e a cui ritorna.

Occorre certamente ragionare sul passaggio della Scrittura dall’oralità alla grafica. Esso intensifica un’intenzione di ragione che l’oralità aveva ancora inespressa, il cui scopo è riflessivo e demitizzante rispetto alla stessa oralità. Tuttavia, l’oralità non è superata. Essa percorre la produzione del testo sin dall’origine e dispone il testo alla sua ripresa orale nell’assemblea liturgica e nell’accademia. Così il testo va percorso in due direzioni: a ritroso per restituirne l’originalità storica saldata all’oralità che l’ha preceduto, e in avanti per dissodarne il potenziale rienunciativo. Né la ricerca storico critica né la predicazione liturgica sono perciò estranee al testo. Come non lo sono la meditazione mistica e l’interpretazione accademica. Esse, invece, costituiscono dei momenti intrinseci della sua complessa storicità. D’altra parte, la sua fissazione nella formula di fede costituisce di fatto una referenza che onora la quota riflessiva del testo implicita nella sua “ragion grafica” nella direzione di un suo incremento precisivo rispetto alla creatività fluttuante e implicitamente mitizzante della tradizione orale. La formula precisa, dunque, ma non esaurisce, né censura; bensì dissuade e suscita al tempo stesso.

Ora, se tale processo che si dispiega su due linee – oralità e scrittura – non è per nulla estraneo al testo stesso, la Scrittura è continuamente attraversata da un incessante processo di lettura, reinterpretazione, rilettura, riscrittura che la tradizione ha compiutamente fissato nel canone. La sua fissazione dice appunto la sua capacità di sporgersi nuovamente oltre se stesso, generando nuovamente un processo creativo che è appunto la tradizione, esegetica, teologica e liturgica. Persino le arti nel loro complesso, sotto questo aspetto, fanno il testo e contribuiscono alla sua intelligenza teologica. Il canone, infatti, ne è la norma, ma non la fine. Anzi. In quanto limite, il canone agisce oltre se stesso, implicando già la sua necessaria ripresa ermeneutica esattamente come il limite di ciascun libro biblico non assomma i testi, ma li intreccia uno nell’altro, costituendo un intreccio molto singolare di intertestualità. Ciascun testo non è infatti aggiunto all’altro, ma si innerva nell’altro, assorbendolo e trasformandolo. Perciò, ciascun testo può compiutamente essere inteso solamente in questa rete intertestuale di cui esso è già parte costitutiva e che percorre entrambe i Testamenti.

Questo libro, dunque, parla di una dimora che occupa lo spazio di un libro sulla mia scrivania e il tempo che impiego per leggerlo e, tuttavia, pur comprimendoli nell’esigua impronta del libro, non li dissolve in un istante solo presente, bensì li mantiene, dando a ciascun episodio una sua particolare significatività pur all’interno della struttura raccolta dal dorso della copertina. Come tale, perciò, ha un’estensione temporale, un intrigo, una trama, una soglia e un epilogo. Tuttavia, non solo gli aspetti formali lo costituiscono. Fanno corpo con essi i volti, gli abiti, le posture, i luoghi, gli accenti e i colori che ne innervano l’ossatura, caratterizzandola in modo del tutto singolare. La Parola tiene insieme gli uni agli altri nell’atto di lettura che si deposita formando il corpo anche di questo libro. Simile eppur dissimile al suo originale, esso intende farlo rivivere, purché ai nostri occhi si associno le orecchie, le mani, il capo, il corpo intero, risuonando insieme ad esso. Ben sapendo che, per leggere il libro, alla fin fine, bisogna esistere letterariamente, pressappoco come Napoleone Bonaparte che di sé non disse “Io sono come Carlo Magno”, bensì “Io sono lui”. E, tuttavia, perché l’originaria apertura del testo sia onorata, il lettore che assuma l’identità mitica come propria non può vivere miticamente se vuole onorare anche se stesso. In questo duplice rimando sta il respiro della lettura: sistole e diastole della vita stessa – ritmo e melodia della vita – la lettura rimanda ad essa senza mai identificarvisi totalmente, pena una vita non vissuta e non goduta appieno come tale.

Il breve testo in esergo è la porta d’accesso alla mia interpretazione della storia di Giuseppe. Sosterò sulla sua linea cercando il luogo ove essa conduce, nella consapevolezza che molto vien celato tra le righe e, forse, molto mi sfugge né so dire. Il testo sacro, infatti, come qualsiasi testo, nasconde ciò che esso pensa e non osa dire apertamente. Sarà perciò arduo venirlo a sapere perché il testo trattiene ciò che gli è più caro. Ad esso vanno dunque fatte una serie di domande. La prima attiene al verbo “amare” con cui il testo caratterizza la qualità della relazione di Giacobbe col figlio, a cui corrisponde specularmente il verbo “odiare” con cui qualifica la relazione dei fratelli con Giuseppe. Pare che a motivo dell’amore esclusivo del padre, i fratelli coltivino un odio tale da non poter rivolgere una parola amichevole a Giuseppe. Appare dunque fin troppo facile ritenere che essi siano invidiosi perché a lui solo è riservato un posto privilegiato nel cuore del padre, un posto unico, l’unico disponibile. Se mi chiedo perché mai Giacobbe ami Giuseppe in modo così smaccatamente unico, il testo stesso pare fornire una risposta: la predilezione di Giacobbe per questo figlio sarebbe dovuta al fatto che è quello avuto in vecchiaia. Che mai vorrà dire? Non pare essere una considerazione cronologica, non foss’altro perché è Beniamino l’ultimo dei suoi figli, non Giuseppe. Non si tratta dunque di un privilegio accordato al minore, come può accadere per un vezzo senile verso il più indifeso dei figli. Per capire il motivo di tale predilezione conviene forse rapidamente ripercorrere la storia di Giacobbe fino al momento in cui concepisce Giuseppe e Beniamino. Osservo prima, però, e tengo ferme, queste stranezze del testo; mi saranno utili per orientare l’interpretazione. Un padre ama il penultimo dei suoi rampolli più che tutti gli altri figli e tale predilezione smodata appare loro a tal punto indigeribile da coltivare un sentimento d’odio profondo nei confronti del giovane fratello, non però nei confronti dell’ingiusto genitore. Il suo comportamento appare in tutta la sua stranezza se diamo credito a un dettaglio apparentemente insignificante: vale a dire la “tunica dalle lunghe maniche”, in ebraico: ketonet passim. Il termine significa: tunica di lana. Non è un mantello, come quello che indossano i profeti o i pellegrini nomadi. Non è nemmeno una tunica sacerdotale, come quella di Aronne; neppure, infine, la tunica del Messia. È, con tutta probabilità, una tunica femminile principesca, come indica il riferimento alle lunghe maniche (cfr. 2Sam 13,18). Lo stesso Rashi nota la singolarità dell’espressione già presente in questo passo tenebroso, in cui si riferisce dell’incesto di Amnon, figlio di Davide, con Tamar, sua sorella, alla quale si rivolse dicendo: «giaci con me, sorella mia». L’episodio narra di come Amnon si prese la sorella con la forza e poi nutrì verso di lei un odio feroce maggiore dell’amore con cui l’aveva dapprima posseduta con la forza, così che lei che «vestiva una tunica con le maniche lunghe, perché le figlie del re ancora vergini indossavano tali vesti …si stracciò la tunica con le maniche lunghe che aveva indosso, si mise le mani sulla testa e se ne andava gridando». Nonostante la somiglianza di questo episodio con la nostra vicenda, il saggio Rashi non commenta oltre, e con lui una folta schiera di commentatori cristiani. Un oggetto parla a chi ha orecchie per intendere, più delle parole con cui i protagonisti nascondono le proprie miserie, riempiendosi la bocca di parole sublimi per non ammettere a se stessi la propria pochezza: che un padre sia divorato da un sentimento folle di sé è possibile coglierlo se si pone la massima attenzione a ciascun singolo dettaglio del testo, ricordandosi di guardare sotto il tappeto, osservando i particolari a cui prestiamo solitamente l’attenzione più remota. Che tale padre goda in modo insano dell’affetto che un figlio gli dimostra indossando il vestito da fanciulla che fu di sua moglie, dovrebbe apparire subito chiaro, ma solo perché un oggetto illumina tutta la scena, non perché le parole l’hanno illuminata! Anzi, le parole la nascondono accuratamente. Per esse noi riterremmo che Giacobbe ami Giuseppe con tutto il cuore. A tal punto la Scrittura utilizza simbolicamente il linguaggio che gli oggetti possono apparire più “intelligenti” delle parole. Così impariamo che il testo prende in giro se stesso avvisandoci di non fermarci alle cose che noi riteniamo importanti, bensì di guardare le cose che esso descrive, gli ambienti, il mondo inanimato che pare avere più vita dei protagonisti animati. Ma, appunto, noi dobbiamo vederlo. Così il testo pare prendere in giro anche noi lettori chiedendoci: “che lettore sei? Li vedi i dettagli? Vedi che sto giocando con te come il gatto col topo? Insomma, non ti sei accorto che se mi dici cosa dimentichi ti dirò chi sei? E tu, caro lettore, hai certamente letto, tra le mie righe, parole che indicano le azioni degli uomini e parole che semplicemente dicono le cose, ma hai dato peso alle une più che alle altre, sottovalutando forse il particolare insignificante della tunica dalle lunghe maniche per dare subito credito alla voce del padre che dice di amare il figlio. Questo facciamo tutti, credendo di esser gran cosa rispetto alle cose, ma spesso così non è, sebbene noi non si sia facilmente disposti ad ammetterlo. Questo dovrebbe dirci il testo, insegnandoci così a leggere e a vivere! Lo stesso sorriso ironico dovrebbe suscitarci il nome di quella che chiamerò più avanti la protagonista implicita della narrazione, Rebecca, madre di Giacobbe. Il suo nome significa, tra l’altro: tomba. Il fatto stesso di chiamarla in tal modo è un grido possente che il testo emette percuotendo il lettore nel suo torpore. Le cose che fa, le azioni che compie, sono significate sin dal suo nome: più che dalle mirabolanti vicende della sua vita l’eroina è significata dal suo nome, come se qualsiasi azione svolta nella sua vita il personaggio non abbia senso che se inquadrato nella relazione col proprio nome, cosa di cui la protagonista è irresponsabile giacché, appunto, il nome di ciascuno è imposto dai genitori. Ed è appunto quello che dice il testo a proposito di Rebecca! Ciò che essa farà e fa è come predeterminato, appreso dal latte materno e ripetuto senza scampo. Ciò di cui Rebecca è responsabile, infatti, è di aver perpetrato un gesto di egoismo arcaico e immemoriale: «ti ho dato la vita, tu ora me la devi, anche perché io senza di te non so chi sono, a tal punto mi sono ridotta come madre e come donna». Che è come dire: la vita è giusta; se io te la do, tu me la “ritorni”, doverosamente, come fosse un’ovvietà degna di un automatismo che chiamiamo “riconoscenza”, senza renderci conto di quanto essa troppo spesso si configura come una “servitù”, quella stessa servitù che ci è stata imposta e che ora noi perpetriamo. Questo dice appunto il nome che Rebecca porta con tanta disinvoltura, non tanto perché significa “tomba”, ma perché è dal suo stesso significare la vita di una persona che noi con lei dovremmo gridare “aiuto”! E così abbracciare una fede che svela a noi stessi come sia maledettamente difficile esser altro che il proprio nome – come insegna appunto il ricordo dei nostri cari antenati di cui per lo più sappiamo peraltro solamente …il loro nome! E ci sprona a far meglio, a gettare scompiglio nella nostra vita perché così non accada: che il mio nome, oltre a quello di Rebecca, non significhi la mia vita prima ancora che io l’abbia vissuta, tanto potrà essere aderente al modello fornito.

Abbiamo visto che il passo cela alcune cose inaspettate tra le righe: una tunica con particolare significato affettivo per i protagonisti; una madre che pur essendo origine della vita viene chiamata Tomba. Più avanti tornerò su questi particolari sorprendenti che si riveleranno decisivi per l’interpretazione. Faccio ora una serie di considerazioni che potranno esserci utili per cogliere a pieno il senso del passo. Anzitutto, osservo che, attraverso il termine “vecchiaia” il testo associa se stesso alla narrazione della saga precedente, quella di Giacobbe, invitandoci a percorrere a ritroso il libro per verificare come avvenne che Giacobbe concepì Giuseppe in tarda età. Per la verità, il termine insiste su questo concetto, perché, poco sopra, al versetto 2 si dice: «Queste sono le toledot di Giacobbe». La parola indica la discendenza di sangue, la serie, la catena, il vincolo familiare, in una parola: i legami che questa vicenda intrattiene con la precedente a cui è “incatenata” come sua origine. Quello che il lettore ora legge è dunque “generato” da ciò che è già stato detto più sopra. Tramite l’osservazione compiuta a proposito delle conseguenze dell’odio che i fratelli coltivano, infatti, il testo evoca la celebre vicenda di altri fratelli, uno dei quali è a tal punto vinto dall’odio da non poter rivolgere una parola amichevole all’altro: si tratta dell’episodio di Caino e Abele che si conclude, come sappiamo, con l’assassinio brutale del secondo. Anche lì un amore privilegiato genera un odio senza fine che conduce all’omicidio. Non disquisirò se in questo episodio l’odio fosse motivato o meno, se fosse una ferita narcisistica ingigantita dalla morbosa considerazione di sé che la madre aveva scelleratamente alimentato in lui mettendolo sin dalla nascita al centro di tutte le proprie attenzioni, invidia per quel rampollo che finora era stato un nulla agli occhi di tutta la famiglia, paura che non ci fosse posto per tutti e due i fratelli sotto il medesimo sguardo del Padre, o la risposta ammalorata ad un’abile strategia di Dio per costringere Caino a interagire con il fratello che insidiava il suo spazio, o se, infine, entrambe volessero riscattare i genitori recuperando quel rapporto che essi avevano irrimediabilmente perduto con l’Origine, seducendola. Certo è che appare piuttosto facile distribuire i ruoli: Caino il colpevole, Abele la vittima innocente, Dio il padre premuroso. Se leggo il commento alla Genesi di Rashi noto, però, che al versetto 3 (Ed avvenne, dopo un certo tempo, che Caino offrì dei frutti del suolo in sacrificio al Signore) il grande commentatore ebreo della Scrittura sente il bisogno di precisare che i frutti del suolo erano scarti, mettendo inutilmente in cattiva luce Caino prima ancora che Dio sia entrato in scena. Perché? Forse perché il comportamento di Dio appare inspiegabilmente maldestro e insensibile? È probabile. Mettendo in cattiva luce Caino, il commentatore rivela la propria inconsapevole paura: che Dio abbia qualche responsabilità nel susseguirsi tragico degli eventi. Sta di fatto che l’intervento di Dio scatena la disperata reazione di Caino ora che si sente escluso e reietto. Lui che per primo aveva avuto l’idea di sacrificare a Dio, si sente ora surclassato dall’abbondanza dell’offerta del fratello e per di più biasimato da colui verso il quale era indirizzato il suo dono. Non c’è alcun dubbio che Caino abbia paura che non ci sia posto per lui perché Dio ora gli appare non all’altezza di garantirglielo. E, tuttavia, sarebbe opportuno forse ammettere che questo Dio abbia qualcosa da imparare circa il come si trattano i ragazzi. È questo il modo con cui liberare spazio alla fratellanza? Dai risultati sembrerebbe di no. Devo forse imputare interamente la responsabilità dei fatti al solo Caino o dobbiamo ammettere una corresponsabilità di Abele e di Dio? Il fatto stesso che Dio imponga il segno della sua protezione sulla fronte di Caino significa per lo meno che ora entrambi hanno capito qualcosa l’uno dell’altro e certamente che questo ragazzo andava protetto, cosa che, forse, né la madre, Eva, né il padre, Adamo, hanno saputo fare, presi com’erano a giustificare se stessi a fronte del clamoroso fallimento che essi percepiscono come subito più che agito. Forse dovremmo ammettere che anche Dio impara a conoscere se stesso mentre riconosce la sua creatura? Forse, ancor più profondamente, dovremmo ammettere che è divino disporsi ad imparare e che il segno che Dio impone a Caino è il simbolo di una reciprocità di rapporti che Dio riconosce all’uomo e a se stesso? In ogni caso, sono avvertito: questa è una storia che nasce e si sviluppa sotto il segno della morte. O meglio, di un amore mortale. Nulla so degli altri rampolli di Giacobbe, che vengono ricordati semplicemente con l’osservazione che sono i “fratelli” di Giuseppe, come fossero un corpo unico, amorfo e senza personalità, ridotto dal narratore alla sua relazione parentale. Dai versetti precedenti so che sono i figli di Bilha e Zilpa, mogli anch’esse del patriarca, con cui Giuseppe “giocava”. Questi dunque non sono ancora uomini bensì solo parenti. Il che non è senza conseguenze per lo svolgimento della narrazione.
Rimane da chiarire cosa significhi la tunica dalle lunghe maniche che Giacobbe diede a Giuseppe a motivo della sua predilezione. Ho ipotizzato più sopra che essa fosse la tunica che Rachele indossava quand’era ancora fanciulla presso la casa del padre. Se così fosse, Giuseppe avrebbe ricevuto dal padre una tunica femminile di cui andrebbe così orgoglioso da esibirla come trofeo di fronte ai fratelli e indossarla. Non può che destare meraviglia il fatto che un giovinetto diciassettenne indossi con visibile orgoglio una tunica femminile donatagli dal padre. A meno da non costituire, appunto, un particolare interpretativo di prima grandezza e perciò riferito dal testo con tanta enfasi: Giuseppe ha ricevuto dal vecchio padre il ricordo più caro di sua madre, perché lo indossi. A questo punto è possibile forse intuire perché Giacobbe ami Giuseppe più che tutti i suoi figli: egli rivede nel giovane figlio le fattezze e le sembianze della amata sposa, Rachele, madre di Giuseppe, morta prematuramente dando alla luce il minore di suoi figli, Beniamino. L’amore di Giuseppe per Giacobbe è tale che si esibisce in abiti femminili pur di lenirne il dolore, blandirne l’umore, restituirgli il sorriso perduto da quando la piccola Rachele si perse nello sheol. Tale era l’amore di Giacobbe per lei che da quel tempo non poteva più trovare gioia nel vivere. Questa insanabile amarezza è il carico che Giuseppe condivide con il padre a tal punto da fingersi donna e moglie per lui, vestendosi come ragazzetta vergine consacrata ancora al padre e alla famiglia. Non sottovalutiamo tale amore. Esso somiglia a quello che esibisce il giovane Anselmuccio nel canto XXXIII dell’Inferno. Rivolto al conte Ugolino, suo padre, esclamò: “Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia”. Di fronte al dolore paterno il figlio offre se stesso in sacrificio, assicurando al padre il nutrimento necessario a sopravvivere. Grande è l’amore dei figli per i genitori, assai più di quanto non s’immagini chi non ha occhi per vedere. Eppure, tale amore può stranamente essere al tempo stesso sublime e diabolico. Esso, nell’episodio posto nel più profondo inferno da Dante, sotto la spinta del tradimento, genera una masticazione morbosa degli affetti, al punto tale che il figlio spontaneamente si riduce a cosa masticabile, offrendosi alla fame del genitore tradito. Questo sacrificio supremo è quello che Giacobbe richiede al figlio e che il figlio è disposto a dare in cambio della predilezione paterna. Esso configura il dono della vita come un debito da pagare, un vincolo di sangue cui soggiacere. La pericolosità di una tale concezione degli affetti è tale che non a caso la preghiera cristiana per eccellenza, il Padre nostro, ammonisce di rimettere i debiti in ogni caso. Se, tuttavia, il testo che sto esaminando, il vangelo e Dante (per citare solo alcuni illuminanti esempi) mi ammoniscono circa la possibilità che l’affetto fra genitori e figli, in determinate condizioni, sia una forma di titanismo, forse è il caso di non sottovalutarne la portata. Una tale masticazione reciproca non può destare che orrore, certo, ma non è così rara e episodica come sembra. Per capirlo, forse è opportuno dissodare ulteriormente il testo con altre domande. Perché mai, infatti, il padre Giacobbe non sa trovare motivo di vita se non in questo insano complesso di sentimenti? Perché egli non sa trovare pace e affetto per tutti gli altri suoi figli? Perché, poi, Giacobbe non sa trovare cura per se stesso senza nutrirsi dell’affetto altrui? Non era forse vero che Giacobbe era amato dalle altre sue mogli? E non aveva pure altri figli? Questo vergognoso atto d’amore solo per se stesso, incurante di ogni altra personalità che non sia la propria è il peccato più atroce che padre possa compiere verso i propri figli, ma soprattutto è la più ignobile mancanza di rispetto verso se stessi e la vita. Tale è il peccato di Giacobbe: l’esser vinto dal dolore e accecato dall’amore per la sposa perduta, come se null’altro potesse contare per lui e l’intera sua vita dovesse esserle sacrificata. Scherzosamente, potremmo ritenere Giacobbe innamorato di un cadavere. Ma non sembra il caso di scherzare, vista la gravità della situazione narrata. Più propriamente devo immaginare Giacobbe come uomo che non si rassegni alla realtà, l’immagini malinconicamente, sogni pervicacemente contro ogni evidenza. I sogni, si sa, sono un gran motore della vita, se non rimangono immagini ma si intrecciano almeno un poco alla realtà. Altrimenti paiono ben presto incubi, pressappoco come avviene nel capolavoro di Luis Carrol, Alice nel Paese delle Meraviglie. Vedo dunque di assicurare un po’ di realtà a codesti sogni percorrendo a ritroso le vicende che mi interessano. Se la mia interpretazione è giusta, infatti, la protagonista celata di Gn 37,3 è Rebecca, madre di Giacobbe, la matriarca del clan di Isacco. Essa avrebbe vissuto la propria maternità come un utero chiuso che, avendo dato la vita, non l’abbia saputa lasciare andare, soffocando il figlio Giacobbe col proprio amorevole abbraccio. Come quando Eva generò Caino esclamando «Ho acquistato un uomo da Dio», nominò appunto il proprio figlio “Acquisto” (Qain), Rebecca non seppe mai rimettere il debito della vita che essa stessa aveva generato, asservendo il figlio con un legame d’affetto insincero e smodato il cui guadagno era un privilegio, sì, ma pagato a caro prezzo e sostenuto da segreto rancore il cui contrassegno era la menzogna1 con cui avviluppava figlio e marito.

Nota 1 – Il termine, qui e d’ora in avanti, va inteso nel senso più ampio e religioso attestato nella letteratura giovannea, più che nella comune accezione moralistica. Il suo senso profondo è perciò da collocare nell’ontologia.

Per seguire l’intero svolgimento della narrazione segui il tag: La tunica di Joseph

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