La tunica di Joseph – L’incanto di madre natura
Dopo questi fatti, la moglie del padrone mise gli occhi su Giuseppe e gli disse: «Giaci con me!». Ma egli rifiutò e disse alla moglie del suo padrone: «Vedi, il mio signore non mi domanda conto di quanto è nella sua casa e mi ha dato in mano tutti i suoi averi. Lui stesso non conta più di me in questa casa; non mi ha proibito nient’altro, se non te, perché sei sua moglie. Come dunque potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?». E benché giorno dopo giorno ella parlasse a Giuseppe in tal senso, egli non accettò di coricarsi insieme per unirsi a lei. Un giorno egli entrò in casa per fare il suo lavoro, mentre non c’era alcuno dei domestici. Ella lo afferrò per la veste, dicendo: «Giaci con me!». Ma egli le lasciò tra le mani la veste, fuggì e se ne andò fuori. Allora lei, vedendo che egli le aveva lasciato tra le mani la veste ed era fuggito fuori, chiamò i suoi domestici e disse loro: «Guardate, ci ha condotto in casa un Ebreo per divertirsi con noi! Mi si è accostato per coricarsi con me, ma io ho gridato a gran voce. Egli, appena ha sentito che alzavo la voce e chiamavo, ha lasciato la veste accanto a me, è fuggito e se ne è andato fuori». Gn 39,7s
Lo spirito dell’interpretazione è etereo e incorporeo, può essere qui e là, sottratto alle condizioni del tempo e dello spazio e tuttavia vuole indugiare ancora un poco sul “là” della avventurosa vicenda di Giuseppe seguendolo in quella terra esotica e misteriosa che si apriva dinanzi ai suoi occhi. Sappiamo quanti dolori avesse lasciato alle spalle nell’accampamento del padre Giacobbe. E tuttavia non era stato lui a volerli abbandonare. Non fu infatti per spirito d’avventura e risoluzione personale che se ne andò dalle tende che l’ospitavano un tempo. Nè volle andarsene sottraendosi a quell’amore morboso che l’aveva d’altra parte nutrito fino ad allora e di cui era stato il pasto inconsapevole. La reciproca masticazione d’affetti non gli era venuta in uggia, infatti; e se non fosse stato per l’esasperazione fraterna che trovò un modo tanto scomposto e orribile per liberarsi di lui, non se ne sarebbe andato, nonostante tutti i suoi sogni eroici. Perché i suoi sogni erano tali finché aveva il sostegno sicuro dell’esclusivo affetto paterno tra le tende del campo. Ma ora, sottratto ai suoi occhi, doveva cavarsela da solo e cercare altro sguardo sotto il quale brillare, non rendendosi conto che semplicemente sostituiva sguardo a sguardo, mettendosi in scena di volta in volta davanti a un pubblico diverso perché senza suscitare una visione d’ammirata devozione, lui proprio non ci sapeva stare e così dipendeva pur sempre da qualcuno e di qualcuno voleva l’incondizionata ammirazione. Tanto schiavo era della maleducata predilezione paterna, da non saper stare composto, trattenendosi dal fare l’attore, come se non sapesse stare senza platea. Lo spirito dell’interpretazione che io incarno qui sotto l’albero di melo in fiore nel turbinoso silenzio del chiostro di San Sempliciano in Milano sorride un poco di questo suo vezzo perché lo trova somigliante a sé medesimo e tuttavia prova pietà e pena per questo suo dipendere e sostare servile come se mai bastasse a se stesso e volesse espandersi sempre, non rendendosi conto dei propri ceppi, lungamente appresi da quel padre che scambiava la propria fame per una concezione alta di sé, macchinando legami cui dolcemente asservire se stesso nell’illusione di primeggiare lui solo su tutti e perciò finendo per essere una buffa macchietta di uomo, quasi una caricatura; perché mentre asseriva il proprio primato, pur sempre doveva imporlo a qualcuno e finiva perciò per dipenderne pressappoco come il re che è tale finché qualcuno non gridi: “È nudo”! Perché un conto è il delicato esporsi dell’autore di un testo che ammicca al lettore, un altro è l’infantile esposizione del corpo intero alla masticazione altrui, come se non ci fosse che quello e poi più nulla, in quella folle identificazione di sé col proprio corpo così tipica dei bimbi, che in un giovane si può forse scusare, ma non nel patriarca che esibiva se stesso all’idolatrica adorazione del figlio. Ma se di questi insani legami, ora recisi, Giuseppe s’era fortunosamente liberato, ad un’altra malia soggiaceva, distillata dalla folle masticazione paterna: quella madre – Rachele – ch’egli forse aveva appena intravisto, e che tuttavia abitava il cuore del padre come rigida statua cui egli asserviva se stesso e tutti gli affetti. Senza i confini precisi di un corpo, privo di quelle piccole miserie che compongono, insieme alle bellezze, la personalità di ciascuno, il fantasma di lei segretamente soggiogava anche il cuore del giovane Giuseppe d’un amore senza vincoli e totale cui concedere se stesso come a un suo pari, l’Unico a cui farsi devoto, ripercorrendo le vie già percorse dal padre sotto le tende dell’accampamento, nella lontana terra natia, e più oltre tra le pecore di Làbano, lo scaltro zio che aveva tentato Giacobbe in ogni modo senza riuscire ad averne ragione. Con questo stato d’animo, eccitato nei sensi dalla nuova avventura che gli si spianava davanti, sebbene schiavo e ridotto a misera cosa nelle mani dei mercanti, Giuseppe veniva condotto in Egitto ove andava incontro al destino. Dovette essere un viaggio in cui certamente ebbe più di un’occasione di mettersi in scena, come suo uso, perché il testo non prova imbarazzo a dire come l’esposto nella fossa dovette avere il privilegio di servire come domestico nella casa di Potifar, grande eunuco di Faraone. Che la vendita di un simile servo nella casa principesca sia uno spericolato gioco d’azzardo lo dice il buon senso: chi – infatti – venderebbe senza pensieri a una casa patrizia un rifiuto umano gettato nella fossa? A meno di non pensare che Giuseppe abbia saputo conquistarsi la stima e l’ammirazione dei carovanieri, cogliendo d’un balzo l’occasione di recidere del tutto i legami di complicità che lo legavano al padre. Quegli stessi legami che continuavano invece ad attossicare i fratelli, ancora inconsapevolmente succubi del patriarca e di se stessi. Che, però, lui stesso fosse stato succube e complice del titanico affetto del padre, Giuseppe lo tacque a se stesso, facendosi bello, mettendosi in scena, come se la vita fosse un teatro e lui uno scaltro attore disposto a interpretare la medesima parte, prima come figlio, ora come servo della casa del nobile Potifar. E come sotto la tenda Giuseppe scaltramente profittava della debolezza paterna, così si trovò ben presto a profittare della fragilità di quel colosso d’argilla che ora doveva servire: privo di virilità, infatti, Potifar non tardò a vedere nel giovane straniero quel figlio che gli era stato negato dalla sorte decretata per lui dai nobili genitori. E dunque, per entrambi, l’occasione di mettere in scena il proprio riscatto. Per questo Giuseppe ottiene “tutto” nelle proprie mani. Per questo ascende alla destra di Potifar, prima come suo servo, poi come suo maggiordomo, infine come figlio perduto ed ora ritrovato. Così sono gli uomini: delle proprie debolezze fanno complicità, associandosi ad altre debolezze, finché non siano affrontate e risolte in prima persona. Perciò Giuseppe passava da una masticazione all’altra, da una dipendenza all’altra, da una complicità all’altra, senza avere il coraggio di affrontare se stesso, bensì aggrappandosi arrivisticamente a chi intuiva potesse sostenerne il vuoto e così riempirlo. Cosa fosse questo vuoto, lui non voleva saperlo e s’attendeva di passare la vita ignorandolo attraverso altri, masticandoli come il padre aveva fatto con lui e i suoi fratelli. Se così non fosse, non spiegheremmo come sia potuto accadere che il giovane s’avventurasse fino al talamo nuziale di Potifar, insidiandone la consorte, coltivandone i sogni repressi, offrendosi ancora una volta alla masticazione altrui senza mai capire perché tenesse tanto a primeggiare, mettendosi in scena come attore inconsapevole della propria parte. Lo spirito dell’interpretazione vuol essere giusto e dunque dirà che se il padre – Giacobbe – divorava come titano i suoi figli, era forse perché una titanessa non lo conteneva, dando limite e forma alla sua fame, tutelando i rampolli. Questo pensiero doveva rodere l’animo di Giuseppe fin nel profondo, ove giacciono chete le immagini più luminose e inquiete dell’esistenza di ciascuno di noi: quella del padre c’era in sovrabbondanza, mancava del tutto quella materna che era sogno sublime e orrido insieme, associato alla vita come alla morte, privo di corpo e confine preciso. Sottile come un respiro, esso invadeva l’abisso più celato del giovane spingendolo sempre in avanti, gettandolo in scena perché, infine, il giovane figlio di Rachele vedesse e riconoscesse se stesso. Così, il destino apparecchiava le sue pedine e spingeva Giuseppe sotto lo sguardo della nobile moglie dell’eunuco di faraone, anche lei claudicante nell’anima e tuttavia non nel corpo. Se, infatti, Potifar vedeva in Giuseppe il figlio negato dalla natura e perciò nulla poteva rifiutargli, anche lei intravvedeva nell’ebreo il giovane figlio che la volontà doveva negarle e perciò si ribellava in cuor suo alla bestia sociale che le imponeva un tale sacrificio sin nella carne e segretamente alimentava lo stesso desiderio del consorte. Li univa lo stesso dolore. Li divideva la natura. In questo bailamme d’affetti, Giuseppe prosperava e cresceva, profittando delle debolezze altrui a tal punto che il testo dice: «la moglie del padrone mise gli occhi su Giuseppe e gli disse: “Giaci con me”!». Ed è l’unica parola che la donna pronuncia, come un latrato, ridotta anch’essa a bestia feroce, come avvenne ai fratelli. A tal punto Giuseppe spinse le cose pur di essere riconosciuto, mettendosi in scena come pavone e gallo, sotto gli occhi languidi della padrona. Occhi di donna e di madre, che tuttavia non poteva essere né l’una né l’altra. A questo Giuseppe non sapeva pensare, spinto com’era dalla volontà di brillare lui solo, giacché mai aveva potuto avere un simile sguardo di donna e di madre su di sé, anch’egli complice della nostalgia paterna che portava in cuore come tomba e sarcofago vivente. Perciò il testo lo cala nuovamente nella fossa, tra i prigionieri di faraone, affinché faccia ancora una volta il deserto dentro di sé e nuovamente consumi l’esilio finché la verità non sia tutta alla luce. Lo spirito dell’interpretazione che io incarno qui, seduto sul muretto di pietra tra le colonne leggere disposte in duplice fila nel chiostro di San Sempliciano, tra i roseti e le camelie in fiore, circondato dagli studi dei saggi ospiti del cenacolo agostiniano, prova vera pena e dura fatica a scrivere qui dell’amore e della morte e di come tormentino il cuore dell’uomo finché non siano riconosciuti, divisi e poi nuovamente riuniti, con nuova compostezza, nell’animo del giovane Giuseppe. E tuttavia la pena per il giovane non può celare del tutto la lezione impartita al lettore: che il giovane portasse in seno il disperato affetto dell’orfano lo si può capire, con strazio e dolore. Che tale strazio, però, si consumi sempre sotto lo sguardo di un altro come se la vita non possa essere che una messa in scena di cui gli altri sono spettatori, è cosa miserevole e malsana cui soggiacere. È ben vero che il primo gesto richiesto alla vita è di esser riconosciuta. Ben miserevole cosa, però, è pretenderlo in tal modo da ridurre se stessi allo sguardo di altri, come se fosse misura di sé, senza la quale non poter vivere. Questo, Giuseppe aveva appreso sotto la tenda, nell’accampamento, e questo ripeteva ossessivamente, come se non sapesse mai bastare a se stesso, come se nulla valesse in sé e per sé, attestando così d’esser eternamente figlio di quel legame, senza mai sapersene liberare concependo se stesso come pari tra pari. A questo l’aveva allevato il padre e a questo lui soggiaceva mettendo in scena il medesimo copione. E questo segretamente anche l’ossessionava: non avendo mai potuto cogliere lo sguardo materno su di sé brancolava nel buio sbracciando affinché fosse visto e riconosciuto, lui che non lo era stato – per natura – dalla madre morta di parto, e – per volontà – dal padre, folle di nostalgia a tal punto da ridurre l’intera famiglia a platea del proprio dolore. Lo spirito dell’interpretazione non è tanto malaccorto da narrare solo cose tristi e perciò se in questo episodio della saga di Giuseppe racconta delle sue miserie e servitù oscene, il lettore potrà confidare che più oltre sappia trovare motivi di maggior letizia cui prestare la propria occhiuta attenzione. Tuttavia noi osiamo ritenere che è nella miseria più oscena che già traluce il divino, come sua antitesi, in essa già contenuto grazie allo sguardo amorevole che su essa si china senza infingimenti, come se due fossero i tempi, quello della pena e quello della gioia, entrambi, però, contenuti nel medesimo atto che, come un piccolo seme, cresce nel tempo e si dipana sotto gli occhi del lettore. Così, il compito dell’interprete è quello di portare alla luce quello che è già contraddittoriamente presente, seppur nascosto, tra le righe, perché la gioia del poi non salti fuori come un coniglio dal cappello del prestigiatore e non dimentichi il dolore del prima componendo una narrazione sciatta e volgare in cui la vita sia smentita e ridotta a un cronometro per il quale gli istanti si succedono uno all’altro, stupidi, mentre la vita non è affatto tale.
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