La tunica di Joseph – Il pianto di Giuseppe
«Allora mandarono a dire a Giuseppe: «Tuo padre prima di morire ha dato quest’ordine: “Direte a Giuseppe: Perdona il delitto dei tuoi fratelli e il loro peccato, perché ti hanno fatto del male!”. Perdona dunque il delitto dei servi del Dio di tuo padre!». Giuseppe pianse quando gli si parlò così. E i suoi fratelli andarono e si gettarono a terra davanti a lui e dissero: «Eccoci tuoi schiavi!». Ma Giuseppe disse loro: «Non temete. Tengo io forse il posto di Dio? Se voi avevate tramato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso. Dunque non temete, io provvederò al sostentamento per voi e per i vostri bambini». Così li consolò parlando al loro cuore». Gn 50, 16-21
Non è impresa gradevole, né facile, privare un popolo e se stessi di un uomo che si celebra come un eroe. Tanto più quando si appartiene a quel popolo che l’adora come un proprio patriarca, un padre, un esempio. E tuttavia l’interprete non può tacere l’amarezza del suo destino, la tracotanza dei suoi desideri, l’insensibilità del suo cuore, perché nota come solo alla fine della sua vita egli se n’avvide, di fronte ai fratelli supini, come un giorno aveva così inopportunamente desiderato: per loro stessa ammissione «schiavi». E non è una diceria, un modo di dire, una posa. Schiavi lo furono realmente per quattrocento anni del tenebroso Egitto sebbene il testo sottolinei come già lo fossero ben prima di divenirlo storicamente, facendo della schiavitù una categoria morale e teologica oltre che storica. Così, bisogna ammettere che la vicenda della genealogia di Abramo è sì grande e luminosa perché accoglie Dio come pulcino nella nidiata, e tuttavia giace per ora in miseria, ai piedi del fratello. Chi dice che costui sia uomo di sapienza, uomo di Dio, metta conto che questo è l’esito della vicenda di quattro generazioni di uomini e che il comandamento che recita “Io sono il Signore Dio tuo” conclude: “che punisce la colpa dei padri nei figli per quattro generazioni”. E anche questa non è una favoletta per bambini: trapassata di padre in figlio – da Abramo su su fino a Giuseppe – come una catena e un vincolo, la colpa si rinnova di generazione in generazione e s’amplifica come un diluvio finché non sia vista in tutta la sua portata devastante. L’abbandono d’Ismaele che sta alla radice del malheur di vivere dei figli di Abramo non è in sé una colpa abominevole. Lo è averla taciuta così a lungo. Dissimulata a se stessi, negata e rimossa essa ha reso i corpi insensibili, gli animi rotti ad ogni menzogna, i cuori induriti. D’altra parte, chi non intende che il pianto di un bambino nel deserto è uno strazio insensato? E chi non ammette che il tacerne come se nulla fosse accaduto, o peggio, dissimularlo d’eroismo chiamando a testimone e consolatore Dio stesso sia indegno di quella consapevolezza di sé che sola fa l’uomo? È la malattia della parola, qui, come sempre, che ammalora l’animo, allontanandolo dalla realtà. E non è certo un Dio colui che si può rendere complice e correo di un simile misfatto. Certo, così è l’uomo: chiude gli occhi per non vedere il dolore, nella sua goffa fragilità. Non è l’amore, infatti, ad essere cieco, ma la paura a rendere tale l’uomo finché si ostina a non riconoscerla. Quest’uomo, questo Giuseppe, disposto a travestirsi da donna e da madre, da figlio e da amante, poi da consigliere del re e dispensiere del regno, ora si trova nudo, in lacrime, davanti alla realizzazione del suo sogno d’un tempo: i fratelli, schiavi, che si gettano ai suoi piedi. Come è potuto accadere questo? Quale arrogante inconsapevolezza di sé ha stregato quest’uomo a tal punto da realizzare un simile sogno? E d’altra parte, quale dolore soggiace a tanta insensibilità? Paragonare Giuseppe a Dorian Gray sarebbe certamente un deplorevole eccesso. Questo bel giovane della Scrittura, che passa attraverso la storia ritenendosi sempre innocente per non vedere se stesso, se non ha certamente i vizi osceni di Dorian, non ne ha nemmeno lontanamente la statura morale. Perché quello sa la propria colpa sin dal suo primo apparire, mentre questo la cela a se stesso finché non ha prodotto tutti i suoi frutti più amari. E tuttavia ne condivide lo stesso malheur di vivere. Così egli visse, volendo l’unico posto al sole per sé solo, proprio lui che ha negato se stesso vedendo di sé solo una metà, quella buona, ostinatamente narrando a sé e agli altri la propria innocenza. Ma può essere innocente un uomo davanti a Dio? Forse gli uomini possono crederlo tale, certamente. Forse anche può persuadere coloro che lo amano. Ma il lettore che con me scorre queste pagine non ha il dovere di amarlo perché il solo dovere che ha verso se stesso è di essere onesto e perciò di intendere la luce che il libro getta su di lui. Questa appunto è la luce di Dio, e non consola, ma illumina l’uomo, così umano, troppo umano, per essere innocente. E d’altra parte, il terrore e la paura che attanagliano Giuseppe che come il padre non crede che ci sia posto per due, tre o dodici, non è negare che ci sia un posto unico per tutti perché ritiene che non ci sia che un unico posto di cui la vita dispone? E ciò non significa esattamente questo: che l’Origine che dispone della vita è essa stessa indigente? Che la vita stessa è poca cosa, in ogni caso insufficiente per tutti? Non è questo un tentar Dio, un ritenerlo responsabile di una vita avara e fatta al risparmio? Vale a dire: Dio non intende condividere con altri il poco (o il molto che appare tale agli occhi della paura) che possiede, perciò occorre arrangiarsi da soli garantendosi l’unica possibilità di salvezza ai danni di altri, fossero pure i fratelli. E non era questo il contrassegno della vita già del padre Giacobbe, il tallonatore che dovette lottare per il posto sin dal concepimento nel seno della madre Rebecca in cui s’agitava per prevalere sul fratello Esaù? E non è esattamente questo che Giuseppe ripete ossessivamente e compulsivamente? Lui che, dopo aver fatto strame dei fratelli ridotti a belve feroci, aveva tallonato anche il padre Giacobbe sin dall’adolescenza, intaccandone il primato coi suoi sogni, ora scopre quanto sia arido aver vissuto guidati dal segreto desiderio di realizzarli. Certo, il libro riconosce a Giuseppe un ultimo gesto di cuore. Ma il danno è fatto. Al di là delle parole, i fratelli, supini, sono da sostentare e provvedere del mantenimento come inabili alla vita tanto sono stati caricati di pesi dal titanismo del padre prima e del fratello poi. Questa postura dei corpi parla più di ogni parola detta. E, d’altra parte, l’offerta di mantenerli e di provvedere a loro non è forse una restituzione, il riconoscimento implicito dei propri torti, mai francamente ammessi? Così, poco prima di morire, primo di dodici fratelli, Giuseppe trova la strada del cuore e finalmente parla al cuore. Poi, anche lui, come tutti, piomba nello sheol. La Genesi che s’apre con la creazione del mondo e della vita si conclude con la schiavitù, il pianto e la morte. Anche l’eletto, infatti, muore. E se abbiamo posto tanta attenzione critica ai personaggi umani che animano questa saga familiare, che diremo di quel Dio che si sostiene in essa? Non è forse anch’esso un personaggio cui prestare la medesima attenzione critica? Forse, in definitiva, è proprio questo l’ultimo referente cui il testo mira con tanta prudenza, vista la sua assenza quasi totale nelle vicende narrate. Non è questa, infatti, una ironica e sferzante rappresentazione critica al lato oscuro della magnificenza di Dio cui l’uomo aspira quale sua immagine? Magnificenza che si rivela obbiettivo realisticamente impossibile all’uomo e pertanto immagine distorta e illusoria di sé come di Dio stesso?
Vicende di padri e figli, certo, ma soprattutto di fratelli. Come avvenne, dunque, che questi si tramutarono in schiavi? Il testo narra questa storia di dissimulazioni e travestimenti fin nei minimi dettagli. Noi non seguiremo tali vicende che a volo d’uccello.
Fu il padre a mandare i fratelli in Egitto, apostrofandoli come cose inerti10, ma trattenendo per sé come tesoro prezioso il minore fra essi, quel Beniamino figlio della bella Rachele a cui non sapeva rinunciare. Così veniamo a sapere che il titano ancora è preda della bramosia e della paura. Non si fida dei figli, tanto da trattenere per sé quest’ultimo ricordo della moglie perduta, ancora e ancora prigioniero del suo strazio. Così quelli arrivarono in Egitto al cospetto di Giuseppe che li riconobbe, facendo però l’estraneo. Stupisce? Non credo. Il lettore sa come Giuseppe neghi ostinatamente la realtà per proteggere se stesso e dunque è avvisato: non è il riconoscimento della fratellanza che cerca, bensì il modo di condurre la vicenda a suo vantaggio, prima suscitando nei fratelli un pauroso senso di colpa11; poi cercando di guidarli come un padre12, prendendone il posto; infine, separandoli dal fratello minore, cui apparecchia un destino particolare13. Certo, in tutte queste dissimulazioni c’è sempre un barlume di verità: i fratelli hanno effettivamente compiuto un gesto terribile relegando il giovane Giuseppe nella fossa. Ma non erano forse essi stessi vittime della fossa cui lui e il padre li avevano condannati come ultimi e reietti? Perché non riconoscere dunque le proprie colpe? Perché è infinitamente più comodo, anche se insincero, vedere la pagliuzza nell’occhio altrui che il trave saldamente conficcato nel proprio. Comodo e soprattutto vantaggioso. A tal punto si spinge l’arroganza di Giuseppe da coinvolgere persino Dio nel proprio progetto, assicurandosene l’appoggio14, lui che ne è, evidentemente, lo strumento e la voce sin da quando era piccolo. Non è forse vero che il Decalogo recita: «Non nominare il nome di Dio invano»? E non è appunto questo il significato occulto della strategia di Giuseppe? Nominare Dio a tutela e custodia delle sue azioni ignorando sistematicamente le proprie colpe e la realtà? Questo briccone! Mai rampollo d’uomo fu più manipolatore della vita altrui e della realtà! A tal punto ignora se stesso da pretendere di essere strumento e mano del Signore mentre cela a se stesso e agli altri ogni sua colpa per dichiararsi sempre innocente! I cori angelici fanno un gran baccano, lassù, e scommetto che mentre più d’uno di loro s’aspetta il fragore delle saette scagliate dall’Onnipotente, altri, più malignamente, inarcano la bocca accennando un breve sogghigno immaginando lo scorno dell’Altissimo. Invece così non è, perché l’Alto consiglio di Dio è occupato a tenere in vita quel che resta della sua tribù e non c’è da andare troppo per il sottile, in questi casi. Intanto, laggiù, i fratelli, da tempo immemore abituati ad essere succubi e ultimi, gli danno credito ancora una volta, ammaliati da tanta maestria. Ma noi, che siamo qui, comodamente seduti e al riparo dalle sue malie, riconosciamo l’inganno. Frammisto a verità, certamente. E non è questo appunto, mentire? Dire le cose a metà, prendendo un vergognoso vantaggio sull’altro che assicuri a sé soli l’unico posto al sole, come se non ci fosse posto per tutti sul trono della vita, ma per sé soli, gli eletti? Lo spirito dell’interpretazione piange anch’esso per la follia dell’uomo. E però tosto si consola, ben sapendo che l’Alto consiglio così ha disposto per il bene di tutti, convertendo in luce quella ostinata volontà umana di essere unici costi quel che costi, legittimando inconsapevolmente ogni misfatto pur di prevalere, dichiarando così la propria paura, la miseria umana e spirituale con cui concepisce la vita per ottenere ciò che gli assicura un vantaggio sull’altro. E non è questa appunto la luce di Dio? Non è questa, appunto la verità di Dio sull’uomo? Il suo sguardo amorevole illumina e disgela le menzogne di cui si circonda e s’ammanta perché solo così possono essere vinte. Eppure non è così per Giuseppe che persegue ostinatamente il suo progetto d’elezione per sé solo, non contento di ciò che ha, bensì ansioso di essere riconosciuto sì, dai fratelli, purché supini e pentiti davanti a sé. Per questa sola ragione credo che lo spirito dell’interpretazione ami i fratelli più di Giuseppe. Per questo loro non saper essere che ultimi, maledetti della storia, coloro che finiscono sempre col cerino acceso in mano e reietti. A tanto, Dorian Gray, forse, non sarebbe giunto, ma Giuseppe sì, e con l’aiuto di Dio. Forse del suo Dio. Non certo del nostro, voglio sperare, alimentati dalla Regola d’Oro per la quale «Tutte le cose che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro» (Mt 7,12; ma anche Amos, tuona dal Carmelo contro Israele e la casa del loro Dio – Am 2,8).
E tuttavia, sebbene tardivo, e non completamente sincero, il pianto redime Giuseppe almeno in parte, qualificandolo infine come quello che M. Buber chiama l’uomo del ritorno. Con lui siamo stati sferzanti e duri, forse, ma schietti e sinceri. Ritengo perciò che Joseph si sentirebbe comunque a casa nel mio libro, riconosciuto nella sua umanità, nelle sue sviste, nei suoi amori, nei suoi fallimenti, nelle sue paure, nella sua fede; non in quella che noi vorremmo da lui. Un personaggio che suscita amore e comprensione, sebbene molto gli si debba perdonare.
Qual è dunque il senso occulto della saga di Giuseppe? Essa porta alla luce la paura fondamentale dell’uomo: che non ci sia posto per tutti perché uno solo deve prevalere perché l’eletto abbia la sensazione di essere e avere più dei fratelli. L’amor di sé di cui l’uomo si nutre è palesemente un “homo homini lupus”, una masticazione. Come lo stomaco si nutre di cibo, la nostra personalità si nutre della personalità altrui, fosse pure quella dei propri congiunti, figli e fratelli. È questa la luce del testo in cui s’intravvede la straordinaria capacità di smascherare un uso improprio di Dio, e una concezione sbagliata delle relazioni che intratteniamo, sistematicamente a proprio vantaggio, dissimulando le proprie intenzioni e i propri sentimenti, narrando altro dalla realtà, mentendo a se stessi pur di prevalere con qualsiasi mezzo. Un testo critico, dunque, in cui appare con straziante fulgore un uomo umano, troppo umano. Ma questa è appunto la luce di Dio. Non l’esaltazione dell’uomo sino al Suo trono, bensì la kenosi di Dio accanto alle miserie umane, interpretandole, dissolvendone i veli, invitando il lettore a riconoscere le proprie. Ma ciò significa dover differenziare il personaggio Dio dalla sua persona, discernendo, di volta in volta, se non sia un abbaglio spirituale, una rappresentazione distorta, una verità autentica, forse, ma ancora incompleta e insufficiente, ipotizzando che Dio non sia né questo né quel personaggio, bensì l’istanza che presiede alla scrittura del testo e che non appare che se ne si afferra, nell’atto di lettura, la logica che lo struttura. Non è estranea a questa logica la consapevolezza storica che presiede alla scrittura del testo, come vedremo nel prossimo capitolo del nostro lavoro. Non un libro per tutti, in ogni caso. Perché per leggerlo occorre ascoltare almeno una volta la voce silenziosa della propria miseria e spezzare il ghiaccio che afferra crudele le nostre vite, rendendoci insensibili e sordi a qualsiasi dolore, fosse anche il nostro.
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