La tunica di Joseph – Il lettore a Joseph
«La carità è paziente, è benigna la carità; la carità non invidia, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, ma si compiace della verità; tutto tollera, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta». 1 Cor 131
«Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Lc 23,332
Nei miei studi sulla storia di Giuseppe e i suoi fratelli ho cercato i corpi. Ho ragionato come un pittore cercando posture e oggetti, dipingendo la scena più che raccontandola. Ho insomma trasformato la lettura in pittura, in immagini, fidandomi più della postura dei corpi che delle parole dette. Illuminando quelle attraverso quelli. Naturalmente mi sono servito della letteratura critica: da Wenin a Von Rad, da Beauchamp a Rashi, dal Talmud a Thomas Mann, da Otto a Kerényi. Ma anche la sterminata letteratura storica ha costituito un patrimonio prezioso di letture per concepire il mio lavoro sotto la luce di una ulteriore intuizione: che Genesi racconti una catena di misfatti dovuti alla bramosia e che il fondamento della storia di Israele sia un’opera critica dovuta a coloro che, durante il periodo deuteronomista, hanno messo mano all’estensione del testo. Sulla spinta del fallimento storico di Israele, per la seconda volta esiliato dalla sua terra, la letteratura delle origini viene messa in discussione e radicalmente riscritta. Ciò che per secoli era stato pacifico e condiviso ora non poteva più esserlo. Questo periodo assiale cade intorno al 500 a.C. È il periodo della riforma di Esdra. Gli esuli, tornati in patria, rifondano il regno su basi nuove, centralizzando il culto a Gerusalemme, introducendo la novità della festa di pesah, trasformando la festività della shabbat, riscrivendo la Legge, riformando il governo, raccogliendo i materiali eterogenei della tradizione intorno al nucleo di un nuovo canone etico, stilistico e religioso, il cui centro è il deuteronomio e l’esperienza mosaica del Sinai. Le antiche tradizioni, compresa quella sacerdotale, vengono profondamente ricentrate intorno al concetto di memoria fondatrice. Ricorda! Israele è il leit motiv della riforma. Ma non è una chiusura, anzi. È in questo periodo che si afferma la maggior produzione letteraria della nuova forma di religione: il Giudaismo. Gli sudi di Halbwachs, Eliade, Jaspers, per citare i maggiori, ma anche degli italiani Pagazzi, Borgonovo, Vignolo e Liverani, mi sono stati utilissimi. La Lettera di Aristea a Filocrate mi è stata indispensabile per ripercorrere le vicende che influiscono sulla formazione del testo della traduzione greca dei LXX e le vicende di Jamneh. Fondamentale la lettura del saggio di Freud sull’uomo Mosè e la religione monoteistica. Sopra tutto, confesso il mio debito a Simon Weil che tanta parte ha avuto nel concepire la vastità della miseria illuminata dall’amorevole sguardo di Dio. Senza il suo sguardo cristallino non avrei potuto rovesciare la magistrale interpretazione di Mann conducendola sul suo stesso terreno, né estendere la miseria sino alle soglie dell’Esodo ben oltre il saggio di Wenin.
Detto questo, la mia personale convinzione è che lo sguardo che cerchi di comprendere Genesi debba porsi al di fuori di essa, dopo di essa. Il suo fulcro sta nel Decalogo, suprema chiave interpretativa della letteratura che è stata posta a fondamento della Scrittura. Il Decalogo come chiave ermeneutica del racconto, così che racconto e comandamento siano una diadi inseparabile. Il racconto dice qualcosa d’altro che una saga familiare se esso è posto nella luce della Legge. Essa illumina il racconto di una nuova prospettiva, donandole un nuovo senso. D’altra parte, è la vita a chiederlo. Qual è la radice del fallimento di Israele? Come è possibile un secondo esilio? Come è accaduto che il popolo abbia vissuto un così drammatico sradicamento? Il fondamento mitico e patriarcale vacilla. Il passato non è più sufficiente a legittimare il presente. Coloro che dicevano Dio erano gli stessi che lo tradivano. Cosa non è stato visto dunque in quel fondamento che ha condotto al disastro babilonese? Mentire vuol dire raccontare una cosa a metà. Illudersi significa nutrire una visione parziale della vita, ipostatizzandola, per non vedere il proprio dolore e consolar se stessi. Non diremo che la storia di Genesi è la storia della menzogna; piuttosto ammetteremo uno strabismo dello sguardo, un vedere una cosa e dirne un’altra, in una parola, una radicata e profonda ipocrisia. Ma perché s’è prodotta una simile svista? Non è questione di idee o di parole. È questione di corpi, emozioni, affetti: relazioni sbagliate che risalgono alla notte dei tempi e che tuttora sono vigenti. Occorre analizzarle, criticarle, riscriverle sulla base di un nuovo patto, dirimente tra vecchio e nuovo. Ciò fa della Scrittura un testo di grande coraggio. Essa vuole imparare dalla storia e riscriverla. Perché imparare da essa, leggerla, vuol dire scrivere nuovamente, assumendosi la responsabilità di un nuovo inizio, mostrando senza pudore il malheur del passato nei corpi dei protagonisti, perché vivano nuovamente per noi nell’atto di lettura. Questo atto che scopre il passato, de-creandolo, demitizzandolo e riconducendolo alle sue reali proporzioni, è una rilettura, un prendersi cura distanziante in cui il nuovo Israele prendeva coscienza di sé dandosi nuova forma, una forma legale il cui cuore etico è il codice di Santità che è, a tutti gli effetti, una legge sulla fratellanza. Il fatto stesso che sia sancita in forma di legge dice la difficoltà di viverla come forma reale delle relazioni con altri, nel momento stesso in cui ne dice la condizione di possibilità: che la memoria che intesse le radici del popolo sia radicalmente rivista sotto la luce attuale della Legge.
Mi si potrebbe obiettare che in tal modo leggo Genesi in maniera non diversa dal capolavoro di Thomas Mann, I Buddenbrook3. Pur sottolineando la grande differenza di stile, oltre che di contenuti, che nettamente le separa, colgo grande affinità di sguardo tra la Scrittura e Thomas Mann. Entrambi hanno un potere dissacrante sui miti del racconto, pressappoco come il capolavoro cinematografico di A. Kurosawa, Rashomon. Entrambi raccontano l’eroismo del fondamento come un profondo autoinganno cui soggiace, in fondo, un uomo piuttosto banale, come sempre è il male che l’uomo ostinatamente ripete, e persino goffo nella sua incapacità di liberarsi delle catene invisibili che lo avvincono. Ma, proprio per questo, entrambi raccontano l’uomo reale e mostrano come il racconto celi in sé un tessuto di menzogne e illusioni che merita di essere decostruito per essere compreso. Entrambi hanno una visione dell’amore per l’uomo a tutto tondo, restituendo ai protagonisti una profondità abissale. Inoltre, la storia di entrambe le opere abbraccia quattro generazioni di uomini e conclude in un’amara decadenza. Due episodi illuminano magistralmente il periplo che la famiglia compie: il primo è costituito dalla luminosa affermazione della piccola Antoine posta in apertura, mimando l’inizio di Genesi: «Credo che Dio mi abbia generato insieme a tutte le creature». Il secondo ne costituisce l’antifrasi, sebbene ne sia protagonista ancora un bambino – Hanno, quasi l’alter ego del giovane Giuseppe – l’ultimo rampollo dei Buddenbrook: «Credevo… Credevo… Che dopo non ci sarebbe stato più nulla», disse, giustificando così il fatto di aver tirato una riga sull’intero albero genealogico della famiglia. Tuttavia, il romanzo di Mann e la Scrittura non sono sovrapponibili, evidentemente. La loro differenza sostanziale sta in ciò: che nei Buddenbrook ciò che demistifica il racconto è un altro racconto, nella Scrittura è la Legge. Non è una differenza da poco per le conseguenze che genera. La Scrittura postula una possibilità di sottrarsi al circolo infinito delle illusioni smascherando il racconto attraverso una legge che s’insinua in ogni aspetto della vita, formandola. Mann, come Kurosawa, postula l’impossibilità di uscirne perché ciò che demistifica il racconto è un altro racconto tale per cui, come il protagonista di Rashomon, il lettore potrebbe giungere alla conclusione di “non capire se stesso” giacché immerso in un clima di radicale disfacimento morale del tutto simile alla disfatta che Israele dovette vivere in Egitto prima, in Babilonia poi, per non risollevarsi più. D’altra parte, la Legge che si pone da una parte come istanza critica del passato e dall’altra come azione da compiere, non si sottrae per ciò stesso all’atto della coscienza che vi si dispone, rimanendo sospesa pertanto alla sua attuazione libera. Ciò rende la Legge in qualche modo indecisa essa stessa, non potendo eludere in alcun modo il potere della libertà che vi consente nell’ora della storia. Perciò la Legge donata da Dio invoca la storia singolare della coscienza, non il contrario. Essa non assolve l’uomo dal dolore della libertà, bensì lo suscita, così che essa si esercita in un duplice lutto: quello della Legge che s’arresta sulla soglia della libertà e quello della Libertà che non può consentirvi se non rimanendo integralmente se stessa. Questa reciprocità di Legge e Libertà è la particolare storicità della Scrittura che non può dire ciò che è più gioia per l’uomo se non esprimendola nel lutto. In tal modo, tutti i contenuti essenziali del cristianesimo sono qui anticipati, senza essere per ciò realizzati. Perché lo siano occorre appunto la presenza di una libertà che agisca il lutto fino in fondo, disponendosi a volerlo.
D’altra parte, è proprio il darsi del dono divino nel quadro di una relazione normata da una legge che istituisce la pratica del dono cerimoniale sul fondo di un conflitto possibile. La legge che regola il patto, infatti, non dice solo la disposizione al consenso ma anche il conflitto latente che essa tende a regolare. La procedura del dono – attestata sin dai primordi dell’umanità -dunque, acquista il senso di una scommessa rischiosa che consiste nell’offrire per sedurre e legare a sé. Al rischio dell’uno corrisponde il rischio dell’altro in una relazione che è fin dall’inizio assimilabile a un duello o a un gioco. Il gioco del donare e ricevere è un dispositivo regolato da una logica agonistica fondata su due esigenze tipicamente umane: l’onore e il rispetto. Ma, se il rapporto è essenzialmente di tipo ludico, non prescinde però dal dispositivo legale che lo regola. Giocare è sempre agire in seno a un patto accettato attraverso lo scambio. Il dono scambiato, perciò, assume e riassorbe un possibile conflitto. L’alternativa è la guerra, in quanto trasforma colui che viola il patto, come lo straniero, in un possibile nemico. Pertanto, il regime di alleanza non è uno stato di pace, bensì esprime nel dono una lotta tra gli uomini, il cui fine è il riconoscimento, e la reciprocità cui esso appella non è di ordine fisico, giuridico o etico bensì sociale. Non rispondere è mettersi fuori gioco, rispondere è starne dentro. La posta in gioco è vivere insieme. Il patteggiamento trasforma in gesto di reciprocità quello che potrebbe essere solo un gesto funzionale. Il fatto di riconoscersi non aggiunge nulla, ma in realtà cambia tutto: istituisce una comunità e può farlo solo perché si tratta di un atto reciproco in cui l’altro esiste come altro da me, vale a dire: altro per me. E la sua ritualità è propriamente istituzionale perché il suo fulcro non è la legge ma la relazione sociale che passa attraverso la legge dicendo intenzionalmente la decisione di un vivere insieme che trascende le regole puramente sociali. Non che l’Alleanza fondi la società umana; bensì essa rivela ciò che la fonda quale procedura istituzionale fra gruppi, esperienza iniziale ma non esaustiva del rapporto di alleanza e convenzione accettata che costituisce l’emergere stesso dello spazio pubblico. Se essa ne costituisce l’emergere attraverso la procedura dello scambio cerimoniale di doni, non ne é però la forma storica permanente. Infatti, non è il dono della legge a realizzare il patto, bensì lo statuto pubblico della procedura che essa veicola. È precisamente questo il senso dello slittamento operato dalla società statale in favore della legge in una società che ha ormai sostituito le forme di autorità che si confondono con gli statuti definiti dai sistemi di parentela. In essa emerge un’autorità che trascende i gruppi per collocare l’individuo in un sistema più ampio, pur restando tuttora membro di una discendenza o di un clan. Il suo nomos fonda l’isonomia perché appartiene allo spazio di mezzo – meson – pubblico nel quale il riconoscimento è accordato a tutti annullando i vassallaggi tra capi allo stesso modo in cui è respinto il faccia a faccia tra gruppi e discendenze. In tal modo il riconoscimento, dapprima posto dalla pratica dello scambio cerimoniale di doni, è ora affermato e garantito dalla legge e dall’insieme delle istituzioni politiche e giuridiche. L’antico nomos accordato ad ogni discendenza diventa lotto condiviso, spazio vuoto collocato al centro, che accoglie la regola scritta come cosa esposta sotto gli occhi di tutti e che tutti accettano di seguire quale misura comune, norma di uguaglianza e libertà per tutti. In questo nuovo quadro storico che colloca al centro della città la legge àrbitro, la reciprocità agonistica degli antichi eroi è destituita a favore della giustizia arbitrale che mette in mora l’ordine della vendetta. E, come quella, decade anche la pratica del dono cerimoniale che le era simmetrica, costituendo il terzo mediatore tra le parti. Perciò la figura del terzo ora è assunta dal giudice mediatore e con esso inizia un’altra storia sotto il segno della legge. Ora, ciò che caratterizza l’Alleanza sinaitica sta in ciò: che essa postula una Legge àrbitro intrinsecamente connessa al racconto delle origini da una parte – suggellandolo – e dall’altra riconfigura la funzione del giudice mediatore, trasformandolo in qualsiasi lettore, così che la Legge sia “tutto in tutti” giacché ultimamente fondata su un’unica autorità, quella divina, superando incomparabilmente qualsiasi legislazione il cui esercizio sia meramente giuridico e formale. In ciò sta la differenza dello spirito ebraico biblico rispetto a qualsiasi altra figura culturale del tempo, per lo più fondata sul phobos dei cittadini nei confronti di un’istanza giuridica meramente esterna.
Ora, se il pathos della vicenda esposta può forse essere significato dal capolavoro di Mann, la sua logica appartiene maggiormente alla figura luminosa di Socrate quale emerge dall’opera del discepolo, Platone. Egli è figura posta all’intersezione tra due mondi: quello tradizionale, nell’ambito del quale le conoscenze rimangono segrete e detenute da un’élite che ne dispone, e quello della moderna polis, in cui si va delineando una forma di sapere fondato sul dibattito in contraddittorio e la verifica attraverso un accordo reciproco, in cui i saperi appaiono ora come negoziabili, ora utili, ora efficaci e disponibili. Ciò che caratterizza la posizione di Platone, dunque, è una mediazione tra l’antica sapienza come esperienza spirituale e ascetica dei sophoi e l’accettazione dell’ordine della città e del suo statuto pienamente razionale. Tra l’antico ispirato e il nuovo efficientismo che padroneggia ogni sapere sta il meson di Socrate, il problematico che ama il sapere, per il quale il sapere non è garantito né dal dio né dalla padronanza di cui l’uomo può disporre, bensì dall’interrogativo tipicamente umano che ne sonda i limiti. E tuttavia, la Legge donata da Dio non è un uomo né un discorso, sebbene sia quasi firmata da Mosè, bensì un libro scritto da uno scriba ed esposto al pubblico perché lo legga e lo comprenda nello spazio di un cerimoniale solenne. La sua destinazione, dunque, è il popolo tutto che legge l’opera e la commenta. L’interlocuzione socratica, esemplarmente sostenuta dalla parola del maestro, è qui invece fondata sulla lettura comunitaria della parola scritta:
9.6 «Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare la faccia verso di te, mio Dio, poiché le nostre iniquità si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa; la nostra colpa è grande fino al cielo. 7 Dai giorni dei nostri padri fino ad oggi noi siamo stati molto colpevoli, e per le nostre colpe noi, i nostri re, i nostri sacerdoti siamo stati messi in potere di re stranieri, in preda alla spada, alla prigionia, alla rapina, al disonore, come avviene oggi».
Esdra 9, 6-78.1 Allora tutto il popolo si radunò come un solo uomo sulla piazza davanti alla porta delle Acque e disse ad Esdra lo scriba di portare il libro della legge di Mosè che il Signore aveva dato a Israele. 2 Il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere. 3 Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntar della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci di intendere; tutto il popolo porgeva l’orecchio a sentire il libro della legge. 4 Esdra lo scriba stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza e accanto a lui stavano, a destra Mattitia, Sema, Anaia, Uria, Chelkia e Maaseia; a sinistra Pedaia, Misael, Malchia, Casum, Casbaddàna, Zaccaria e Mesullàm. 5 Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutto il popolo; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. 6 Esdra benedisse il Signore Dio grande e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore. 7 Giosuè, Bani, Serebia, Iamin, Akkub, Sabbetài, Odia, Maaseia, Kelita, Azaria, Iozabàd, Canàn, Pelaia, leviti, spiegavano la legge al popolo e il popolo stava in piedi al suo posto. 8 Essi leggevano nel libro della legge di Dio a brani distinti e con spiegazioni del senso e così facevano comprendere la lettura. 9 Neemia, che era il governatore, Esdra sacerdote e scriba e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Perché tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge.
9.1 Il ventiquattro dello stesso mese, gli Israeliti si radunarono per un digiuno, vestiti di sacco e coperti di polvere. 2 Quelli che appartenevano alla stirpe d’Israele si separarono da tutti gli stranieri, si presentarono dinanzi a Dio e confessarono i loro peccati e le iniquità dei loro padri. 3 Poi si alzarono in piedi nel posto dove si trovavano e fu fatta la lettura del libro della legge del Signore loro Dio, per un quarto della giornata; per un altro quarto essi fecero la confessione dei peccati e si prostrarono davanti al Signore loro Dio.
Neemia 8,1-9; 9,1-3
Il dono della Legge coinvolge tutte le referenze iscritte nell’atto di lettura come un “fatto sociale totale”, secondo la celebre definizione di Mauss, in cui tutti si riconoscono affratellati nel momento stesso in cui fanno memoria dei padri riconoscendone le colpe; vale a dire, distanziandosene attraverso una confessione pubblica che ha tutto il sapore di una catarsi. Preghiere, digiuni, cibi, letture e vesti significano il nuovo status in cui Israele riconosce se stesso come altro e distinto dallo straniero. Ma se lo straniero è posto al di fuori dello spazio sacro, a ciascuno che vi sia iscritto è dato riconoscimento e onore. Un nuovo ordine del mondo è sorto dalle ceneri dei padri: in esso, l’uomo, la donna, la sessualità che li unisce, la generazione dei figli e il rapporto che questi hanno coi genitori, la relazione fraterna e sociale, la relazione che l’uomo intrattiene col mondo e, ultimamente, Dio stesso, sono riconfigurati, dando luogo a un progetto di rinascimento culturale, civile, sociale e religioso attestato dalla tradizione legale mosaica. D’altra parte, occorre pur considerare che lo stesso Pirqê Avot, il celebre trattato mishnico sui detti dei padri, oblitera completamente la stagione patriarcale, facendo iniziare la Tradizione con la consegna della Legge da Dio al Maestro Mosè, attestando così una presa di distanza critica dall’epoca patriarcale a favore della nuova temperie culturale urbana dominata dai Maestri della Grande Assemblea. Contro qualsiasi aspettativa a lungo coltivata in Occidente, dunque, anche il nuovo Stato d’Israele partecipa e consolida quel processo mondiale di critica dell’eredità mitologica e patriarcale che pervade anche, come è noto, lo spirito greco al tempo di Socrate. In questo senso, la cultura biblica si innesta e partecipa di un processo comune a tutte le culture del pianeta. In ciò sta la sua analogia con lo spirito umano.
Infine, non posso tacere l’eroe più grande che soggiace al testo: il lettore. È lui, infatti, quello che deve assumere il giudizio della Scrittura quale criterio interpretativo del testo, operandolo con amore, ironia, comprensione, giustizia. La Legge dice il giudizio che il lettore è chiamato a giustificare in cuor suo. Perciò il lettore assume la posizione di Socrate, il Maestro che ama il sapere al di là delle apparenze. Ma questo è un compito che la Scrittura assegna al lettore, non l’assolve lei stessa. In ciò sta il formidabile impulso al sapere critico che essa richiede e l’intima giustificazione dell’intera storia della Teologia ebreo-cristiana. Essa non sorge dopo la Scrittura, bensì è inscritta in essa nel momento stesso in cui è agita dal lettore che in nulla è esonerato dal compito di capire e comprendere. Per questo motivo la fede è una forma di sapere in atto e non può essere altrimenti, giacché è il sapere peculiare della libertà che non può che essere agito ogni volta da capo da ciascun singolo individuo. Per questo stesso motivo il Deuteronomio utilizza la formula “tuo Dio” e la fede non può mai essere una formula saputa una volta per tutte, bensì solo una “confessione” che ha il sapore delle Confessioni agostiniane nel momento stesso in cui è “di tutti” perché agita nell’atto di una lettura che è teologica e comunitaria dall’inizio alla fine, senza perciò essere “privata”.
Quanto allo stile evidentemente teatrale dell’opera, ritengo sia opportuno fare qualche precisazione: non è una farsa, nello stile di Lucano. Tantomeno una satira o una parodia, nello stile del Satyricon di Petronio. Sebbene io ritenga che la Scrittura non abbia una lettura provvidenzialistica della storia, nella mia lettura Dio è ben presente, come luce che illumina l’atto di lettura. In tal modo concepisco Dio non come Ente, bensì come Essere in relazione agito nell’atto di lettura. Per lo stesso motivo, sebbene i tratti talvolta grotteschi con cui caratterizzo i personaggi siano affini a quelli adoperati da José Saramago, non ne condivido per nulla il sarcasmo dissacrante. Ci pensa già il Libro a dissacrare in nome del Dio senza immagine, senza bisogno che lo faccia Saramago o chi per lui ritiene di possedere uno spirito critico maggiore di quello della Sacra Scrittura. Questo per dire l’inganno in cui cade chi si ritiene più intelligente del testo che legge. Infine, non posso condividere appieno la lettura di Thomas Mann. Sia pure magistrale, essa rivela un certo compiacimento nel tratteggiare il malheur che non mi sento di condividere. Allo stesso modo, il Giuseppe e i suoi fratelli, rivela una lettura del tutto insufficiente delle dinamiche complesse che soggiacciono alla relazione fraterna, per concentrarsi troppo esclusivamente sulla relazione che intercorre tra genitori e figli. La Bibbia è un libro per giovani scritto da maestri che hanno a cuore principalmente la fratellanza, non un trattato di psicanalisi freudiana ante litteram. Così, mi sono fatto spazio tra queste letture cercando la mia strada sulle tracce dell’ironia biblica, ritenendo che potesse indicarmi il nocciolo della questione assai più e meglio di quanto non facciano altri. Per coglierla, ho prestato attenzione allo iato tra dire e fare, scoprendo così quell’ipocrisia dello sguardo che nasce dal dolore non visto. Recuperarlo, è questione di luce. Per me, il significato più profondo dell’amore misericordioso di Dio. Infatti, nonostante le loro sviste e i dolori che s’infliggono, i personaggi biblici sono amabili. Anzi, così umani da costituire un monito permanente a chi si erge a difensore dell’uomo dimenticandone la fragilità, perché, se la luce della Legge illumina la coscienza giudicante che denuncia la coscienza dell’uomo d’azione come arbitraria, cui fa da contraltare la coscienza servile, anch’essa deve confessare la propria ipocrisia dissimulata in una difesa dell’ideale morale che si rifugia nella sola parola. In questa “durezza di cuore” la coscienza scopre, infatti, un male uguale a quello che accusa e, se volesse tener ferma questa sua particolarità, finirebbe per consumarsi in tisiche nostalgie e vani risentimenti, venendone sconvolta fino alla pazzia, come insegna l’amaro esito della vicenda di Edipo. In che consiste allora il plesso della confessione, del perdono e della riconciliazione? Nel desistere infine dall’azione e dal giudizio, riconciliandoli come momenti particolari e finiti della vita, perché il giudizio appartiene a Dio solamente! Vale a dire che la riconciliazione è il testo stesso che illumina e ama il bene come il male dell’uomo, riconoscendoli entrambe come momenti della vita purché la lettura sia anche agita in essa e non solo un’affermazione retorica da anima bella chiusa in se stessa o uno spericolato diletto per lo spirito d’azione. D’altra parte, in quanto mediata dal testo, questa riconciliazione ha già un carattere essenzialmente universale, implicando tutte le referenze iscritte in essa: individuo, sessualità, famiglia, cultura, società, politica, religione. In ciò riposa anche l’intima giustificazione dello stile teatrale dell’opera. Perché poi, Israele, nonostante l’indubbio sforzo riformatore che seppe mettere in campo, non riuscì a sfuggire al declino riuscendo al contempo a mantenere intatta la propria identità, è cosa che esula, per il momento, dal nostro sforzo di comprensione, sebbene, forse, se ne sia indicata una traccia: ciò che la Scrittura ammette e giustifica come “uccisione del padre” e che noi, seguendo la Weil, abbiamo chiamato “discreazione”, non fu riconosciuto appieno poi, cosa che rafforzò, di fatto, una «segregazione dagli altri popoli»4 che l’avvento del cristianesimo coagulava intorno al concetto di una redenzione resa possibile, appunto, dall’ammissione di quella colpa. In tal modo, dunque, abbiamo finalmente simbolizzato anche il concetto di Padre senza uscire dalla Scrittura, formulando ipotesi estranee al testo: coloro che, nella visione di Freud, non hanno ammesso di aver “ucciso il Padre”, sono gli stessi che non hanno riconosciuto di aver preso definitivamente le distanze dal “padre” Abramo, perché il mancato riconoscimento di questa distanza implica la mancata ammissione dell’altra.
Infine, mi sia consentita una parola lapidaria sul termine “elezione”. Esso appare intriso di un malheur antropologico che va illuminato per collocarlo, con mille precauzioni e in modo puramente dialettico, nell’ambito che gli è proprio: quello teologico. Nessuno, tra i nati di donna, è eletto. A meno che non lo siamo tutti, ciascuno a modo proprio; ma questo è un compito e una destinazione, il cui senso profondo è il recupero della fratellanza, non l’esaltazione dell’unicità. Ciò che costituisce l’essenza stessa dell’immaginazione umana, infatti, è la sua tenace illusione di occupare il centro del mondo. Viviamo come in sogno, costretti a ridurre il mondo intero all’immagine prodotta dalla nostra coscienza. E il prodotto di questa immaginazione dispone tutto l’essere intorno a noi, nel tempo e nello spazio. Questo accade perché somigliamo a Dio che costituisce realmente l’essere stesso. Il nostro potere di collocarci nel mezzo dell’essere è la nostra immaginaria divinità. Ma in quanto immaginaria essa è solo possibile. Dunque, possiamo svuotarcene, liberandoci dell’illusione inevitabile prodotta dalla nostra anima. Questa liberazione, se prodotta dal di fuori e dal di dentro, desta l’uomo collocandolo nel reale, vale a dire nella luce dell’eterno silenzio di Dio, per il quale ciascun centro è tale a suo modo perché il centro, che è Dio stesso, è posto fuori dal mondo, ma alla nostra portata, perché, sebbene indisponibile a ciascuno, ne siamo illuminati. Consentire a questa realtà è amare al modo di Dio. Tuttavia, in quanto testimone di questa antinomia, Israele è – realmente – il popolo eletto. In questo preciso senso, Israele è l’umanità stessa, anticipazione dell’ecce homo evangelico.
Perché la Scrittura evochi la vita giusta occorre dunque, e anzitutto, che essa mostri sotto la ferrea luce della verità la qualità delle relazioni umane: esse paiono per lo più governate dalla mancanza di riconoscimento più che dall’affetto che libera. E tale mancanza di riconoscimento è ubiqua perché principalmente ciascuno riconosce a sé solo la necessità di esistere e sussistere come una tale personalità, essendo gli uomini vinti da una paura che li pre-occupa in ogni caso: quella della morte, della fine della propria personalità, delle proprie relazioni e dei propri affetti, dei propri domini e delle proprie cose. In questo vorticoso ombelico narcisistico sono immerse tutte le storie patriarcali in una infinita serie di travestimenti, maschere, dolori, paure che conducono comunque la famiglia al suo momentaneo oltrepassamento nel popolo, che in ebraico ha un identico nome. Come a dire che le medesime ambiguità e i medesimi fallimenti percorreranno sia l’una sia l’altro, finché non si ammetta un radicale fallimento dell’uomo e se ne chieda a gran voce la “ricreazione”. Che questa avvenga è possibile però solo a patto di una discreazione che avviene in colui che legge purché sappia leggerla anche nella propria vicenda, come la tensione implicita in ogni atto umano, ogni umana vicenda, ogni istituzione storica. Senza questa duplice distanza da sé e dalla comunità (familiare, politica ed ecclesiale), non è possibile riconoscere in alcun modo la normatività del testo e dell’azione liturgica in cui esso viene attestato dalla comunità che se ne appropria. Noi, infatti, non comprendiamo noi stessi se non mediante la via lunga dei segni dell’umanità depositati nella cultura e attestati dalla comunità umana vivente, a tal punto che tutto quanto in un primo tempo appariva contrario alla soggettività, si rivela essere il medium nel quale soltanto possiamo comprenderci. Perciò, l’appropriazione del testo non significa affatto un ritorno a una soggettività sovrana bensì la ripresa di sé al di là delle illusioni in modo tale che l’appropriazione realizzata in questa distanza consiste, in altre parole, nell’esporsi al testo attestato e nel ricevere da esso un sé più vasto e solenne, costituito dalla “cosa” del testo. In tal modo l’io narcisistico si eleva al Sé dissodato nella relazione col testo.
Se questa strada è percorsa s’intuisce il nesso tra paura e menzogna e perciò si ha una minima possibilità di vincere tale paura e cogliere la strada dei patriarchi per quello che è: un formidabile insegnamento di come gli uomini guidati dalla propria paura distruggano e dissolvano per quanto è loro possibile buona parte di ciò che la vita è di bello e come, tuttavia, in questo eros della distruzione l’uomo possa sempre intravvedere una porta stretta, un ponte sopra l’abisso, un arcobaleno sopra l’aperto mare che minaccia la sua esistenza, a patto che si riconosca assediato da se stesso oltre che da forze estranee a sé che lo tiranneggiano. In altri termini, se pone tutta la sua attenzione a dare reale valore all’affermazione della Regola d’Oro per la quale le relazioni umane sono buone e giuste solo se sono paritetiche, come recita l’adagio del secondo comandamento: «Ama il tuo prossimo come te stesso». È precisamente questo il nesso tra racconto e comandamento: perché il comandamento sia comprensibile occorre aver letto il racconto che il comandamento ora illumina a sua volta come un faro tagliente come una lama: i protagonisti di Genesi hanno violato tutti i comandamenti e il loro è l’esempio di come la paura governi ciascuna singola azione umana finché non si sia fatto pienamente i conti con se stessi, i propri padri, Dio. Che Dio appaia nell’atto di lettura è possibile solo, dunque, se si istituisce la differenza specifica tra chi usa l’amor di sé per accampare un inaudito privilegio sugli altri come se questi dovessero amarci più di se stessi, e chi (Dio) amando se stesso sa a tal punto rispettare l’altro e conservare se stesso da costituire il soggetto interpretante di tutta l’intera vicenda patriarcale: l’Autore, il cui compito è appunto di istituire il senso dell’intera narrazione senza dissolverne alcuna parte, ma custodendola nella propria particolarità. A questo livello la religione dice, finalmente, Dio.
Occorre prestare attenzione alla pluralità di generi e narrazioni, come se Dio potesse dirsi solo al plurale: il mito (Gn 1-11), il racconto (Gn 12-50) e il comandamento (Es 19 ss fino a deuteronomio) articolano la medesima questione costituendo un unico libro, la Torah, ma con accenti e scopi diversi. Non è questa la sede in cui si possa mostrare l’opportunità e la necessità di questo proliferare di stili per dire un unico libro e un unico autore. Rileviamo, però, l’eventualità di un sospetto nell’atto di lettura: che non ci sia nulla da sapere se la verità è plurale. Tutte le verità appunto lo sono, quando non sono tali, giacché la verità è una, sola, indivisibile, o non è. Agisce qui un malinteso senso di verità, come se la verità non tollerasse la realtà in tutte le sue forme: la verità intesa come astrazione e ultimamente fuga dall’irriducibile singolarità di ogni possibile esperienza. Non è questa la strada che il testo percorre. In esso la verità di Dio, la sua capacità di interpretare la storia umana, agisce in ciascuna singola storia dicendone al tempo stesso l’unicità e la continuità con la vicenda di tutti, un po’ come la trama annoda i fili secondo cui si dipana l’intera vicenda senza sottovalutare ciascun singolo episodio, bensì consentendo anche al lettore di riconfigurare la narrazione al medesimo modo. La bibbia si comporta precisamente come un lettore, scrivendo se stessa. Perciò il primo libro, il sefer hattorah, si apre sulla storia profetica che di essa è, appunto, lettura attuale, viva, vibrante, nella vita del singolo profeta, attestata in ciascun libro perché essa invita anche il lettore a fare lo stesso: accogliere il rischio della lettura per smascherare anche nella propria vita pubblica e privata il nesso di menzogna e morte e così vincerlo, vincendo con esso la paura.
Nota 1 – Ho preferito, qui, una citazione che attesti una teologia dall’alto, piuttosto che dal basso, come potrebbero bene indicare i passi di Mt 3,7 ss. e Is 6,8 ss., perché, sebbene speculari e dunque sostanzialmente equivalenti al passo citato, finiscono per perdere il valore squisitamente teologico del nostro lavoro sequestrandolo a favore di una visone meramente antropologica che voglio esplicitamente evitare.
Nota 2 – Qui, il termine loro vale, per amplificazione, per l’intera umanità, come risulterà dal commento
Nota 3 – In modo analogo, ma più coerente alla forza evocativa di Genesi e al dramma dell’abbandono che ne sta alla radice, lavora Agota Kristof, nel suo celebre capolavoro, Trilogia della città di K.
Nota 4 – S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, p. 149, Milano 1977. Un conferma, interna al testo, di questa involuzione potrebbe essere indicata negli stessi libri di Esdra (capp. 9-10) e Neemia (cap. 13,23ss), ove lo scambio cerimoniale delle donne, attestato sin dai primordi dell’umanità come sinonimo di accettazione, riconoscimento dell’altro, civilizzazione e umanizzazione viene espressamente negato in funzione del mantenimento e del consolidamento della propria identità addirittura in termini “patrimoniali”.
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