La tunica di Joseph – Il corpo della sposa

Scritto da F. Bertoglio

Il 14 Dic 2012

La tunica di Joseph – Il corpo della sposa

«Ma quando fu sera, egli prese la figlia Lia e la condusse da lui ed egli si unì a lei. Làbano diede come schiava, alla figlia Lia, la sua schiava Zilpa. Quando fu mattina… ecco, era Lia! Allora Giacobbe disse a Làbano: “Che cosa mi hai fatto?”». Gn 29, 23-25

Lo spirito dell’interpretazione è uno spirito burlone che prende le mosse da un “qui” e approda a un “là”, confondendo le carte, scompigliando lo sguardo. Così, come dietro le mirabolanti parole di Giacobbe che risuonano alte e solenni all’inizio del capitolo 37 s’é divertito a illuminare una tunica dalle lunghe maniche che parla assai più delle parole e svela un intreccio di complicità miserabili, ora, lo spirito dell’interpretazione dice: “Dietro una domanda rivolta ad altri (Làbano), si cela uno scambio di corpi che meriterebbe una domanda rivolta a se stessi”. E, proseguendo il ragionamento, come par necessario, tale domanda dal sé di Giacobbe dovrebbe risalir su su nella storia fino a Isacco. Infatti, accanto a Rebecca, donna capace di un amore vischioso e catacombale a cui il figlio ha soggiaciuto, schiavo e insieme complice della predilezione materna, il testo pone Isacco, il patriarca del clan che fu di Abramo. Affinché questa arte del rovesciamento, della riduzione e della risonanza che è propria dell’interprete – e che il testo suggerisce, certamente, non vorremo negarlo – non sia lasciata come sospesa a un solo piolo e anch’essa si renda complice di quello spirito di parte a cui i protagonisti delle vicende narrate hanno soggiaciuto, oso dire: se una madre si comporta come tomba e utero rattrappito fino a soffocare suo figlio nei lacci di un amore insincero e morboso, che ne è del padre, Isacco? Perché lo spirito dell’interpretazione è anche uno spirito giusto e vuol dare a ciascuno il suo e finché tutti i fili dell’interpretazione non sono tirati non è in pace con se stesso e vuole vedere di più e si tormenta nell’ombra. Per cui dirò, e mi si perdonerà la brevità brutale: se la madre Rebecca era un sarcofago, Isacco era un cieco. Lo divenne – fisicamente – in vecchiaia, come si dice, ma posso negare a tale dettaglio un suo profilo interpretativo? Non ho forse imparato a leggere il testo? Esso assegna ai particolari materiali, alle cose del mondo, ai corpi, ai nomi, maggiore significatività che alle parole di cui l’uomo si riempie la bocca, perché l’unica parola vera e sincera è quella di Dio e di essa dobbiamo nutrirci. Così riprendo ancora per un poco la storia di Giacobbe che tanta parte ha nelle vicende di Giuseppe e chiedo: come fu che Giacobbe non s’avvide dello scambio, come anche fu per Isacco quando la moglie, irretendolo, gli presentò un figlio per l’altro perché lo benedicesse?

La natura, si sa, è indifferente e cieca anche verso se stessa. Perciò, quando Giacobbe, ospite della casa di Làbano suo zio, scelse la piccola Rachele piuttosto che Lia lo fece perché era bella più dell’altra, sia nelle forme sia nell’aspetto. Quelle forme e quell’aspetto che egli però non seppe riconoscere la notte delle nozze, giacendo con Lia, la sorella maggiore, piuttosto che con Rachele, la prescelta. Tale era la “sensibilità” di Giacobbe che non sapeva riconoscere la sua donna, tanto ne era ciecamente innamorato. Cosa che dovrebbe suscitare un risolino di scherno se non destasse invece in noi profonda amarezza: una tale cecità s’apprende, non è naturale. Tant’è vero che al risveglio la realtà s’impone e la ferita di Giacobbe si apre, ma tosto si richiude, costringendolo a dire: «Che cosa mi hai fatto?». Sarei immediatamente portato a vedere in Giacobbe il dolore per l’offesa subita con l’inganno e la frode. Tuttavia non sottovaluto il dolore per l’offesa arrecata a se stesso! Scoprirsi ciechi è terribile. Specie se si è figli di un cieco. Perciò meglio dire «Che cosa mi hai fatto?» piuttosto che ammettere la propria cecità. Voglio onestamente riconoscere anche la stranezza per cui la bella Rachele non ha protestato presso il padre per l’inganno arrecato al futuro sposo durante la grottesca farsa delle nozze. Ma noi siamo qui, comodamente seduti in un’aula, sulla poltrona di casa, seduti sul sedile scomodo di un treno in corsa, insomma, in qualsiasi posto si sia in questo momento, e ci siamo dati il compito di capire la vita, non ancora l’occasione di viverla in tutta la pienezza conturbante che invece investiva la piccola Rachele. Dunque, cosa diremo di lei, complice dell’inganno paterno e della cecità di Giacobbe? Non era ella forse corresponsabile di tale insensibilità? Lo era, certamente. La sua subalternità al padre le impedì di essere sincera col futuro marito mettendolo sull’avviso, rivelandone i progetti e le trame. Ma del sacrificio dei figli e delle sue miserie ho già detto, quindi non dirò ancora. Eppure, una tale subalternità servile, una volta evidente, non dispiacque a Giacobbe che a fronte dell’inganno rimase fermo nei suoi propositi d’amore, tanto era uso lui stesso a tale servitù con la madre e insincero con se stesso. La libertà pesa, evidentemente, a tal punto, che schiaccia ogni uomo come il mondo pesa tutt’intero sulle spalle d’Atlante. Perciò Giacobbe dice: «Che cosa mi hai fatto?» piuttosto che dire: «Che cosa ho fatto?» e riconoscere finalmente così se stesso e il peso che gravita da sempre sulle proprie spalle. A tal punto lui che era stato oggetto d’un amore esclusivo quanto servile non s’avvedeva dei propri ceppi e li amava ciecamente, cercando in lei se stesso, come un proprio pari, un altro lui, incapace di liberarsi dei propri ceppi quanto lei. Così è l’uomo, così è la vita: finché non si riconoscono i propri ceppi ci si innamora della propria immagine e dei propri incubi più riposti, che paiono però sogni sublimi, affinché non si veda il dolore e non vedendolo lo si perpetui all’infinito, nell’illusione di conservar se stessi e così, invece, segretamente perdersi. E, tuttavia, in questo scambio inavvertito di corpi di donna c’è più che il dolore della servitù. C’è l’indifferenza della natura, la sua cecità bruta, in una parola pietosa, anche se sincera: il vuoto paterno. Tale era infatti la cecità che Giacobbe aveva appreso dall’altro genitore, Isacco, quell’uomo che aveva scambiato un figlio per un altro anche in punto di morte, nell’ora della verità. Lui che era stato oggetto di un sacrificio mai avvenuto perché non si vedesse e non si notasse quello avvenuto, di Ismaele, suo fratello, abbandonato dal padre, Abramo, sulla soglia del deserto, insieme alla donna che aveva amato e che a lui aveva generato un figlio. Non c’è indifferenza più grande per la vita che abbandonare un figlio a se stesso, nel deserto. Questo fece il padre di Isacco, Abramo, per condiscendere alla moglie, Sarah, che esigeva un posto unico per il proprio rampollo mentre decretava l’abbandono per il figlio della schiava che pure lei stessa aveva messo nelle braccia del marito affinché le generasse un figlio legittimo seppur non naturale. A tal punto Abramo l’aveva così maldestramente amata da accecare se stesso, sacrificandole il primo figlio senza batter ciglio. A tal punto Isacco era stato cieco da sopportare l’allontanamento del proprio fratello per prenderne il posto, l’unico disponibile, sotto lo sguardo del padre. Tale era l’amor di sé di Isacco che non ritenne opportuno né chiedere al padre i motivi della messa in scena del proprio sacrificio, né seppe ritenere opportuno riabbracciare il fratello lontano, bensì tenne saldamente il suo posto di figlio primogenito, lui che non lo era. E come sopportò ciecamente il proprio egoismo, così sopportò gli inganni di Rebecca e il suo amore vischioso per il figlio diletto, l’unico che ella seppe amare perché le si sottometteva. D’altra parte, quale dolore doveva portare nel cuore quest’uomo che aveva visto il padre e la madre allontanare il fratello come cosa scartata e lui stesso aveva visto scintillare la lama del coltello paterno sul proprio capo? Quale paura lo rendeva così fragile da non saper mai reagire a un simile misfatto, bensì solamente riderne6? Non stupisce che quest’uomo abbia gravitato per l’intera esistenza intorno a quel pozzo presso il quale una volta scorrazzava il fratello prima di conoscere lo scempio dell’abbandono. In quale torbido intreccio d’amore e servitù ci si dibatte finché le cose non abbiano il loro nome! E, probabilmente, se anche lo ammettessimo a noi stessi, questa servitù continuerebbe a piacerci perché ci assolve e c’impedisce di vedere il dolore che arrechiamo anche a noi stessi. E anch’essa, la cecità, è un peccato immemore ripetuto dai padri, perché, se la progenitrice Eva grida al cielo il proprio “acquisto” mettendo al mondo Caino, Adamo, il progenitore, chiamando il secondogenito “Abele” – vapore, vuoto – pare dichiarare tutta la propria malinconia per l’inconsistenza della vita, distraendosi da essa, contraddicendo la moglie nello stesso momento in cui gli genera il figlio. A tal punto l’animo è contorto finché non ha la luce della verità che si conquista nel riconoscimento pieno del proprio dolore, di cui si è al contempo vittime e complici. E finché è cieco, l’animo umano ripete il proprio dolore innamorandosene disperatamente, come quel “piacere” che appunto si ripete e di cui si ha sempre “fame”. Così Giacobbe scambiava un corpo per un altro perché “distratto” dalla vita come suo padre e il padre di suo padre prima di lui. Questa è la catena della solidarietà nel peccato illuminata dal comandamento che recita: «Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti» (Es 20,5-6). Perché la catena sia spezzata, quello per Dio è l’amore “unico” che si deve avere, sottraendo se stessi all’illusione mortificante dell’amor di sé che, come Narciso, non può che distruggere e distruggersi. Sottoposte alla pressione di tale amore ingiustificato per se stessi, anche le donne soggiacciono al dominio del patriarca cercando di ottenere il suo affetto in un turbillon di figli1 che ne svela la fame cainitica, come se non bastasse mai alcunché finché ciascuno non basta a se stesso, vale a dire, ama Dio solo con tutto il cuore, l’anima e il corpo e perciò ama il suo prossimo come se stesso.

Così, per amor di giustizia, ripercorrendo la storia di Giacobbe e Rebecca ho restituito a ciascuno il suo: alla vitalità materna il proprio rovescio di tomba, alla guida paterna l’irragionevolezza della cecità. Entrambi catturati dal proprio doppio, dal negativo che portano in sé, incapaci di dissolverne il velo, come folli, eppur umani, così umani, che a me pare la lettura si sia finalmente fatta quasi preghiera, cura amorevole per l’uomo, perché lo riconosce non come il protagonista di un’ipocrita icona pubblicitaria familiare infelice e sclerotica, bensì come uomo vivo, reale, percorso da incubi osceni che scambia per sogni come se fosse nato cieco, brancolante nel buio, incapace di vedere la realtà a cui preferisce tosto il simulacro perché lo sgrava dal proprio peso mentre l’asserve a se stesso. È forse banale ricordare come il mito platonico della caverna riecheggi tra queste righe? Come esso disveli la sua portata interpretativa nella nostra vicenda? Il maestro greco recita, infatti: «E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?». Come nel mito è questione di vita e di morte perché nessuno che viva nella caverna è disposto ad accettarlo a tal punto da uccidere pur di non ammetterlo a se stesso, così anche qui i protagonisti biblici accecano se stessi pur di conservare intatta la propria personalità, come l’avaro custodisce in cassaforte il tesoro. Così anche Edipo acceca se stesso per non ammettere che non il destino, bensì le sue stesse mani hanno consapevolmente ucciso il padre e abbracciato la madre. Svelare questa servitù dell’animo è il compito della tragedia, della filosofia e della religione, la cui luce è resa nuovamente disponibile dall’interprete se esso ne cerca le tracce nell’ombra, distinguendo l’una dall’altra, mostrandone l’intreccio, smascherando l’ipocrisia. Essa è un gesto immemoriale, ripetuto sin dalla notte dei tempi, quasi che l’uomo sia nato cieco, per la complicità di genitori e figli, l’indifferenza dei fratelli, la paura immemore che genera l’amor di sé. Una paura fisica intessuta di emozioni e sentimenti, radicata nel corpo a tal punto da rendere ciechi e sordi, letteralmente, distorce a tal punto la realtà da impedire ai protagonisti di Genesi di vederla in modo appropriato, gettando le loro relazioni in un abisso di incomprensione reciproca finché non sia vinta e pienamente compresa. Affinché lo sia non è estranea una riflessione adeguata sul peso delle relazioni primarie intrattenute coi genitori e i fratelli, i quali, per effetto del credito di cui godono, possono costituire un formidabile ostacolo a vedere la realtà. Questa, tuttavia, percepita nel corpo, va indagata in modo tale da restituirle una ricchezza simbolica che comprenda tutte le referenze iscritte, anche passando per la via lunga del testo sedimentato nella civiltà umana, perché non sia una riduzione costruita su una difesa ideologica di sé. La garanzia che sia possibile farlo sta nella singolarità di chi ha agito in tal senso, superando compiutamente lo iato tra dire e fare e perciò attestando se stesso come colui che è luce perché totalmente libero dall’ipocrisia generata dall’amor di sé e perciò reso ospitale a tal punto da non adoperare le paure altrui come alibi per non amare.

Nota 1 – «Ora il Signore, vedendo che Lia veniva trascurata, la rese feconda, mentre Rachele rimaneva sterile. Così Lia concepì e partorì un figlio e lo chiamò Ruben, perché disse: «Il Signore ha visto la mia umiliazione; certo, ora mio marito mi amerà». Concepì ancora e partorì un figlio, e disse: «Il Signore ha udito che io ero trascurata e mi ha dato anche questo». E lo chiamò Simeone. Concepì ancora e partorì un figlio, e disse: «Questa volta mio marito mi si affezionerà, perché gli ho partorito tre figli». Per questo lo chiamò Levi. Concepì ancora e partorì un figlio, e disse: «Questa volta loderò il Signore». Per questo lo chiamò Giuda. E cessò di avere figli. Rachele, vedendo che non le era concesso di dare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, se no io muoio!». Giacobbe s’irritò contro Rachele e disse: «Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?». Allora ella rispose: «Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, partorisca sulle mie ginocchia cosicché, per mezzo di lei, abbia anch’io una mia prole». Così ella gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei. Bila concepì e partorì a Giacobbe un figlio. Rachele disse: «Dio mi ha fatto giustizia e ha anche ascoltato la mia voce, dandomi un figlio». Per questo ella lo chiamò Dan. Bila, la schiava di Rachele, concepì ancora e partorì a Giacobbe un secondo figlio. Rachele disse: «Ho sostenuto contro mia sorella lotte tremende e ho vinto!». E lo chiamò Nèftali. Allora Lia, vedendo che aveva cessato di aver figli, prese la propria schiava Zilpa e la diede in moglie a Giacobbe. Zilpa, la schiava di Lia, partorì a Giacobbe un figlio. Lia esclamò: «Per fortuna!» e lo chiamò Gad. Zilpa, la schiava di Lia, partorì un secondo figlio a Giacobbe. Lia disse: «Per mia felicità! Certamente le donne mi chiameranno beata». E lo chiamò Aser. Al tempo della mietitura del grano, Ruben uscì e trovò delle mandragore, che portò alla madre Lia. Rachele disse a Lia: «Dammi un po’ delle mandragore di tuo figlio». Ma Lia rispose: «Ti sembra poco avermi portato via il marito, perché ora tu voglia portare via anche le mandragore di mio figlio?». Riprese Rachele: «Ebbene, Giacobbe si corichi pure con te questa notte, ma dammi in cambio le mandragore di tuo figlio». La sera, quando Giacobbe arrivò dalla campagna, Lia gli uscì incontro e gli disse: «Da me devi venire, perché io ho pagato il diritto di averti con le mandragore di mio figlio». Così egli si coricò con lei quella notte. Il Signore esaudì Lia, la quale concepì e partorì a Giacobbe un quinto figlio. Lia disse: «Dio mi ha dato il mio salario, perché ho dato la mia schiava a mio marito». E lo chiamò Ìssacar. Lia concepì e partorì ancora un sesto figlio a Giacobbe. Lia disse: «Dio mi ha fatto un bel regalo: questa volta mio marito mi preferirà, perché gli ho partorito sei figli». E lo chiamò Zàbulon. In seguito partorì una figlia e la chiamò Dina». (Gn 29,31 ss)

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