La tunica di Joseph – Il corpo della sposa
Ā«Ma quando fu sera, egli prese la figlia Lia e la condusse da lui ed egli si unƬ a lei. LĆ bano diede come schiava, alla figlia Lia, la sua schiava Zilpa. Quando fu mattina⦠ecco, era Lia! Allora Giacobbe disse a LĆ bano: āChe cosa mi hai fatto?āĀ». Gn 29, 23-25
Lo spirito dellāinterpretazione ĆØ uno spirito burlone che prende le mosse da un āquiā e approda a un ālĆ ā, confondendo le carte, scompigliando lo sguardo. CosƬ, come dietro le mirabolanti parole di Giacobbe che risuonano alte e solenni allāinizio del capitolo 37 sāĆ© divertito a illuminare una tunica dalle lunghe maniche che parla assai più delle parole e svela un intreccio di complicitĆ miserabili, ora, lo spirito dellāinterpretazione dice: āDietro una domanda rivolta ad altri (LĆ bano), si cela uno scambio di corpi che meriterebbe una domanda rivolta a se stessiā. E, proseguendo il ragionamento, come par necessario, tale domanda dal sĆ© di Giacobbe dovrebbe risalir su su nella storia fino a Isacco. Infatti, accanto a Rebecca, donna capace di un amore vischioso e catacombale a cui il figlio ha soggiaciuto, schiavo e insieme complice della predilezione materna, il testo pone Isacco, il patriarca del clan che fu di Abramo. AffinchĆ© questa arte del rovesciamento, della riduzione e della risonanza che ĆØ propria dellāinterprete ā e che il testo suggerisce, certamente, non vorremo negarlo ā non sia lasciata come sospesa a un solo piolo e anchāessa si renda complice di quello spirito di parte a cui i protagonisti delle vicende narrate hanno soggiaciuto, oso dire: se una madre si comporta come tomba e utero rattrappito fino a soffocare suo figlio nei lacci di un amore insincero e morboso, che ne ĆØ del padre, Isacco? PerchĆ© lo spirito dellāinterpretazione ĆØ anche uno spirito giusto e vuol dare a ciascuno il suo e finchĆ© tutti i fili dellāinterpretazione non sono tirati non ĆØ in pace con se stesso e vuole vedere di più e si tormenta nellāombra. Per cui dirò, e mi si perdonerĆ la brevitĆ brutale: se la madre Rebecca era un sarcofago, Isacco era un cieco. Lo divenne ā fisicamente ā in vecchiaia, come si dice, ma posso negare a tale dettaglio un suo profilo interpretativo? Non ho forse imparato a leggere il testo? Esso assegna ai particolari materiali, alle cose del mondo, ai corpi, ai nomi, maggiore significativitĆ che alle parole di cui lāuomo si riempie la bocca, perchĆ© lāunica parola vera e sincera ĆØ quella di Dio e di essa dobbiamo nutrirci. CosƬ riprendo ancora per un poco la storia di Giacobbe che tanta parte ha nelle vicende di Giuseppe e chiedo: come fu che Giacobbe non sāavvide dello scambio, come anche fu per Isacco quando la moglie, irretendolo, gli presentò un figlio per lāaltro perchĆ© lo benedicesse?
La natura, si sa, ĆØ indifferente e cieca anche verso se stessa. Perciò, quando Giacobbe, ospite della casa di LĆ bano suo zio, scelse la piccola Rachele piuttosto che Lia lo fece perchĆ© era bella più dellāaltra, sia nelle forme sia nellāaspetto. Quelle forme e quellāaspetto che egli però non seppe riconoscere la notte delle nozze, giacendo con Lia, la sorella maggiore, piuttosto che con Rachele, la prescelta. Tale era la āsensibilitĆ ā di Giacobbe che non sapeva riconoscere la sua donna, tanto ne era ciecamente innamorato. Cosa che dovrebbe suscitare un risolino di scherno se non destasse invece in noi profonda amarezza: una tale cecitĆ sāapprende, non ĆØ naturale. TantāĆØ vero che al risveglio la realtĆ sāimpone e la ferita di Giacobbe si apre, ma tosto si richiude, costringendolo a dire: Ā«Che cosa mi hai fatto?Ā». Sarei immediatamente portato a vedere in Giacobbe il dolore per lāoffesa subita con lāinganno e la frode. Tuttavia non sottovaluto il dolore per lāoffesa arrecata a se stesso! Scoprirsi ciechi ĆØ terribile. Specie se si ĆØ figli di un cieco. Perciò meglio dire Ā«Che cosa mi hai fatto?Ā» piuttosto che ammettere la propria cecitĆ . Voglio onestamente riconoscere anche la stranezza per cui la bella Rachele non ha protestato presso il padre per lāinganno arrecato al futuro sposo durante la grottesca farsa delle nozze. Ma noi siamo qui, comodamente seduti in unāaula, sulla poltrona di casa, seduti sul sedile scomodo di un treno in corsa, insomma, in qualsiasi posto si sia in questo momento, e ci siamo dati il compito di capire la vita, non ancora lāoccasione di viverla in tutta la pienezza conturbante che invece investiva la piccola Rachele. Dunque, cosa diremo di lei, complice dellāinganno paterno e della cecitĆ di Giacobbe? Non era ella forse corresponsabile di tale insensibilitĆ ? Lo era, certamente. La sua subalternitĆ al padre le impedƬ di essere sincera col futuro marito mettendolo sullāavviso, rivelandone i progetti e le trame. Ma del sacrificio dei figli e delle sue miserie ho giĆ detto, quindi non dirò ancora. Eppure, una tale subalternitĆ servile, una volta evidente, non dispiacque a Giacobbe che a fronte dellāinganno rimase fermo nei suoi propositi dāamore, tanto era uso lui stesso a tale servitù con la madre e insincero con se stesso. La libertĆ pesa, evidentemente, a tal punto, che schiaccia ogni uomo come il mondo pesa tuttāintero sulle spalle dāAtlante. Perciò Giacobbe dice: Ā«Che cosa mi hai fatto?Ā» piuttosto che dire: Ā«Che cosa ho fatto?Ā» e riconoscere finalmente cosƬ se stesso e il peso che gravita da sempre sulle proprie spalle. A tal punto lui che era stato oggetto dāun amore esclusivo quanto servile non sāavvedeva dei propri ceppi e li amava ciecamente, cercando in lei se stesso, come un proprio pari, un altro lui, incapace di liberarsi dei propri ceppi quanto lei. CosƬ ĆØ lāuomo, cosƬ ĆØ la vita: finchĆ© non si riconoscono i propri ceppi ci si innamora della propria immagine e dei propri incubi più riposti, che paiono però sogni sublimi, affinchĆ© non si veda il dolore e non vedendolo lo si perpetui allāinfinito, nellāillusione di conservar se stessi e cosƬ, invece, segretamente perdersi. E, tuttavia, in questo scambio inavvertito di corpi di donna cāĆØ più che il dolore della servitù. CāĆØ lāindifferenza della natura, la sua cecitĆ bruta, in una parola pietosa, anche se sincera: il vuoto paterno. Tale era infatti la cecitĆ che Giacobbe aveva appreso dallāaltro genitore, Isacco, quellāuomo che aveva scambiato un figlio per un altro anche in punto di morte, nellāora della veritĆ . Lui che era stato oggetto di un sacrificio mai avvenuto perchĆ© non si vedesse e non si notasse quello avvenuto, di Ismaele, suo fratello, abbandonato dal padre, Abramo, sulla soglia del deserto, insieme alla donna che aveva amato e che a lui aveva generato un figlio. Non cāĆØ indifferenza più grande per la vita che abbandonare un figlio a se stesso, nel deserto. Questo fece il padre di Isacco, Abramo, per condiscendere alla moglie, Sarah, che esigeva un posto unico per il proprio rampollo mentre decretava lāabbandono per il figlio della schiava che pure lei stessa aveva messo nelle braccia del marito affinchĆ© le generasse un figlio legittimo seppur non naturale. A tal punto Abramo lāaveva cosƬ maldestramente amata da accecare se stesso, sacrificandole il primo figlio senza batter ciglio. A tal punto Isacco era stato cieco da sopportare lāallontanamento del proprio fratello per prenderne il posto, lāunico disponibile, sotto lo sguardo del padre. Tale era lāamor di sĆ© di Isacco che non ritenne opportuno nĆ© chiedere al padre i motivi della messa in scena del proprio sacrificio, nĆ© seppe ritenere opportuno riabbracciare il fratello lontano, bensƬ tenne saldamente il suo posto di figlio primogenito, lui che non lo era. E come sopportò ciecamente il proprio egoismo, cosƬ sopportò gli inganni di Rebecca e il suo amore vischioso per il figlio diletto, lāunico che ella seppe amare perchĆ© le si sottometteva. Dāaltra parte, quale dolore doveva portare nel cuore questāuomo che aveva visto il padre e la madre allontanare il fratello come cosa scartata e lui stesso aveva visto scintillare la lama del coltello paterno sul proprio capo? Quale paura lo rendeva cosƬ fragile da non saper mai reagire a un simile misfatto, bensƬ solamente riderne6? Non stupisce che questāuomo abbia gravitato per lāintera esistenza intorno a quel pozzo presso il quale una volta scorrazzava il fratello prima di conoscere lo scempio dellāabbandono. In quale torbido intreccio dāamore e servitù ci si dibatte finchĆ© le cose non abbiano il loro nome! E, probabilmente, se anche lo ammettessimo a noi stessi, questa servitù continuerebbe a piacerci perchĆ© ci assolve e cāimpedisce di vedere il dolore che arrechiamo anche a noi stessi. E anchāessa, la cecitĆ , ĆØ un peccato immemore ripetuto dai padri, perchĆ©, se la progenitrice Eva grida al cielo il proprio āacquistoā mettendo al mondo Caino, Adamo, il progenitore, chiamando il secondogenito āAbeleā ā vapore, vuoto ā pare dichiarare tutta la propria malinconia per lāinconsistenza della vita, distraendosi da essa, contraddicendo la moglie nello stesso momento in cui gli genera il figlio. A tal punto lāanimo ĆØ contorto finchĆ© non ha la luce della veritĆ che si conquista nel riconoscimento pieno del proprio dolore, di cui si ĆØ al contempo vittime e complici. E finchĆ© ĆØ cieco, lāanimo umano ripete il proprio dolore innamorandosene disperatamente, come quel āpiacereā che appunto si ripete e di cui si ha sempre āfameā. CosƬ Giacobbe scambiava un corpo per un altro perchĆ© ādistrattoā dalla vita come suo padre e il padre di suo padre prima di lui. Questa ĆØ la catena della solidarietĆ nel peccato illuminata dal comandamento che recita: Ā«Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. PerchĆ© io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontĆ fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamentiĀ» (Es 20,5-6). PerchĆ© la catena sia spezzata, quello per Dio ĆØ lāamore āunicoā che si deve avere, sottraendo se stessi allāillusione mortificante dellāamor di sĆ© che, come Narciso, non può che distruggere e distruggersi. Sottoposte alla pressione di tale amore ingiustificato per se stessi, anche le donne soggiacciono al dominio del patriarca cercando di ottenere il suo affetto in un turbillon di figli1 che ne svela la fame cainitica, come se non bastasse mai alcunchĆ© finchĆ© ciascuno non basta a se stesso, vale a dire, ama Dio solo con tutto il cuore, lāanima e il corpo e perciò ama il suo prossimo come se stesso.
CosƬ, per amor di giustizia, ripercorrendo la storia di Giacobbe e Rebecca ho restituito a ciascuno il suo: alla vitalitĆ materna il proprio rovescio di tomba, alla guida paterna lāirragionevolezza della cecitĆ . Entrambi catturati dal proprio doppio, dal negativo che portano in sĆ©, incapaci di dissolverne il velo, come folli, eppur umani, cosƬ umani, che a me pare la lettura si sia finalmente fatta quasi preghiera, cura amorevole per lāuomo, perchĆ© lo riconosce non come il protagonista di unāipocrita icona pubblicitaria familiare infelice e sclerotica, bensƬ come uomo vivo, reale, percorso da incubi osceni che scambia per sogni come se fosse nato cieco, brancolante nel buio, incapace di vedere la realtĆ a cui preferisce tosto il simulacro perchĆ© lo sgrava dal proprio peso mentre lāasserve a se stesso. Ć forse banale ricordare come il mito platonico della caverna riecheggi tra queste righe? Come esso disveli la sua portata interpretativa nella nostra vicenda? Il maestro greco recita, infatti: Ā«E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non lāucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?Ā». Come nel mito ĆØ questione di vita e di morte perchĆ© nessuno che viva nella caverna ĆØ disposto ad accettarlo a tal punto da uccidere pur di non ammetterlo a se stesso, cosƬ anche qui i protagonisti biblici accecano se stessi pur di conservare intatta la propria personalitĆ , come lāavaro custodisce in cassaforte il tesoro. CosƬ anche Edipo acceca se stesso per non ammettere che non il destino, bensƬ le sue stesse mani hanno consapevolmente ucciso il padre e abbracciato la madre. Svelare questa servitù dellāanimo ĆØ il compito della tragedia, della filosofia e della religione, la cui luce ĆØ resa nuovamente disponibile dallāinterprete se esso ne cerca le tracce nellāombra, distinguendo lāuna dallāaltra, mostrandone lāintreccio, smascherando lāipocrisia. Essa ĆØ un gesto immemoriale, ripetuto sin dalla notte dei tempi, quasi che lāuomo sia nato cieco, per la complicitĆ di genitori e figli, lāindifferenza dei fratelli, la paura immemore che genera lāamor di sĆ©. Una paura fisica intessuta di emozioni e sentimenti, radicata nel corpo a tal punto da rendere ciechi e sordi, letteralmente, distorce a tal punto la realtĆ da impedire ai protagonisti di Genesi di vederla in modo appropriato, gettando le loro relazioni in un abisso di incomprensione reciproca finchĆ© non sia vinta e pienamente compresa. AffinchĆ© lo sia non ĆØ estranea una riflessione adeguata sul peso delle relazioni primarie intrattenute coi genitori e i fratelli, i quali, per effetto del credito di cui godono, possono costituire un formidabile ostacolo a vedere la realtĆ . Questa, tuttavia, percepita nel corpo, va indagata in modo tale da restituirle una ricchezza simbolica che comprenda tutte le referenze iscritte, anche passando per la via lunga del testo sedimentato nella civiltĆ umana, perchĆ© non sia una riduzione costruita su una difesa ideologica di sĆ©. La garanzia che sia possibile farlo sta nella singolaritĆ di chi ha agito in tal senso, superando compiutamente lo iato tra dire e fare e perciò attestando se stesso come colui che ĆØ luce perchĆ© totalmente libero dallāipocrisia generata dallāamor di sĆ© e perciò reso ospitale a tal punto da non adoperare le paure altrui come alibi per non amare.
Nota 1 – Ā«Ora il Signore, vedendo che Lia veniva trascurata, la rese feconda, mentre Rachele rimaneva sterile. CosƬ Lia concepƬ e partorƬ un figlio e lo chiamò Ruben, perchĆ© disse: Ā«Il Signore ha visto la mia umiliazione; certo, ora mio marito mi amerĆ Ā». ConcepƬ ancora e partorƬ un figlio, e disse: Ā«Il Signore ha udito che io ero trascurata e mi ha dato anche questoĀ». E lo chiamò Simeone. ConcepƬ ancora e partorƬ un figlio, e disse: Ā«Questa volta mio marito mi si affezionerĆ , perchĆ© gli ho partorito tre figliĀ». Per questo lo chiamò Levi. ConcepƬ ancora e partorƬ un figlio, e disse: Ā«Questa volta loderò il SignoreĀ». Per questo lo chiamò Giuda. E cessò di avere figli. Rachele, vedendo che non le era concesso di dare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: Ā«Dammi dei figli, se no io muoio!Ā». Giacobbe sāirritò contro Rachele e disse: Ā«Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?Ā». Allora ella rispose: Ā«Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, partorisca sulle mie ginocchia cosicchĆ©, per mezzo di lei, abbia anchāio una mia proleĀ». CosƬ ella gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unƬ a lei. Bila concepƬ e partorƬ a Giacobbe un figlio. Rachele disse: Ā«Dio mi ha fatto giustizia e ha anche ascoltato la mia voce, dandomi un figlioĀ». Per questo ella lo chiamò Dan. Bila, la schiava di Rachele, concepƬ ancora e partorƬ a Giacobbe un secondo figlio. Rachele disse: Ā«Ho sostenuto contro mia sorella lotte tremende e ho vinto!Ā». E lo chiamò NĆØftali. Allora Lia, vedendo che aveva cessato di aver figli, prese la propria schiava Zilpa e la diede in moglie a Giacobbe. Zilpa, la schiava di Lia, partorƬ a Giacobbe un figlio. Lia esclamò: Ā«Per fortuna!Ā» e lo chiamò Gad. Zilpa, la schiava di Lia, partorƬ un secondo figlio a Giacobbe. Lia disse: Ā«Per mia felicitĆ ! Certamente le donne mi chiameranno beataĀ». E lo chiamò Aser. Al tempo della mietitura del grano, Ruben uscƬ e trovò delle mandragore, che portò alla madre Lia. Rachele disse a Lia: Ā«Dammi un poā delle mandragore di tuo figlioĀ». Ma Lia rispose: Ā«Ti sembra poco avermi portato via il marito, perchĆ© ora tu voglia portare via anche le mandragore di mio figlio?Ā». Riprese Rachele: Ā«Ebbene, Giacobbe si corichi pure con te questa notte, ma dammi in cambio le mandragore di tuo figlioĀ». La sera, quando Giacobbe arrivò dalla campagna, Lia gli uscƬ incontro e gli disse: Ā«Da me devi venire, perchĆ© io ho pagato il diritto di averti con le mandragore di mio figlioĀ». CosƬ egli si coricò con lei quella notte. Il Signore esaudƬ Lia, la quale concepƬ e partorƬ a Giacobbe un quinto figlio. Lia disse: Ā«Dio mi ha dato il mio salario, perchĆ© ho dato la mia schiava a mio maritoĀ». E lo chiamò Ćssacar. Lia concepƬ e partorƬ ancora un sesto figlio a Giacobbe. Lia disse: Ā«Dio mi ha fatto un bel regalo: questa volta mio marito mi preferirĆ , perchĆ© gli ho partorito sei figliĀ». E lo chiamò ZĆ bulon. In seguito partorƬ una figlia e la chiamò DinaĀ». (Gn 29,31 ss)
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