La tunica di Joseph – Epilogo
«In principio Dio creò i cieli e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e un vento di Dio si librava sulle acque». Gn 1,1-3
Chiudendolo, voglio imprimere una svolta al testo perché la furia iconoclasta che esso tratteggia è per sua natura parziale e in qualche modo, in quanto passione, tende ad altro. C’è anche quella, naturalmente. Non ha senso ritrattarla, bensì avviarla verso una strada percorribile attraverso la demitizzazione, riprendendo il mito. Così il testo ritorna su di sé, chiudendo il cerchio per aprirsi nuove prospettive. D’altra parte nessuna avventura interpretativa è nemmeno iniziata se non dispone già, anche inconsapevolmente, di una via che si dischiude nella chiusura.
Il racconto sacerdotale della creazione posto all’avvio della Scrittura (Gn 1 – 2,4) mi pare un modo appropriato di concludere per rilanciare oltre la siepe. In esso l’autore racconta di un gesto che ha tutti i tratti della legalità, unendo così, indissolubilmente, Legge e festa. Lo stesso verbo creare utilizzato in apertura, ha un significato ambiguo che oscilla tra il dar forma tipico del plasmare artigianale e il far festa. Tuttavia, se proseguiamo nella lettura, il verbo s’illumina di un significato inatteso: dire, semplicemente. Dio creò, dicendo. Il creare è un dire. Cosa poi dica questo dire è presto detto: l’intero Mondo. Il Mondo è detto da Dio, che lo nomina. Creare è un dire che nomina ciò che è. Nominandolo, lo riconosce. Sono semplicemente i primi atti della procreazione: qualsiasi genitore nomina il proprio figlio e con ciò lo riconosce come proprio, assumendosene la responsabilità. Il creare di Dio, perciò, è un’assunzione di responsabilità il cui funzionamento è il distinguere individuando un posto appropriato per ogni creatura. Tutto lo svolgimento dell’azione di Dio è impostato sui toni della giustizia retributiva: a ciascuno spetta un posto, a ciascuno il suo posto secondo la propria specie e in ordine gerarchico. Dio crea riconoscendo, distinguendo, separando, individuando, nominando, identificando secondo un ordine che è legale perché sacerdotale, vale a dire: riconosciuto da chi riposa, sottratto alla mischia. Ma non indifferente, anzi, affidabile perché giusto in quanto fuori dalla serie delle cose. Disponibile a tutti perché non alla portata. La stupenda immagine iniziale dove Dio viene raffigurato come un vento che aleggia sulle acque riassume e anticipa l’intero testo. Se le acque sono la vita, il caos e la Madre, Dio è il Padre che vi aleggia sopra. L’uno non è senza l’altro. Ma ciascuno ha un suo posto. Anche l’uomo che domina l’intera creazione quale immagine di Dio stesso. Un’immagine che è l’essenza della vitalità: la relazione sessuale, la coppia. Dio è intrinsecamente relazionale e la sua immagine più appropriata è la passione amorosa tra diversi. Maschio e femmina. Il che comporta un rischio e un’esposizione all’altro che non si può ridurre a sé perché irriducibilmente altro da sé sin nella pelle e nelle ossa. Riconoscerlo significa perciò riconoscersi secondo una logica che è sin dall’inizio questo stesso movimento. In esso, nulla è fuori posto. Tutto ha il suo limite. Bene e male, in questa straordinaria prospettiva, hanno la medesima realtà d’essere. Anzi, tutto è bene, semplicemente, in quanto essere voluto da Dio. Dal punto di vista dell’essere, bene e male sono, indifferentemente, giusti. Può giovare notare che il testo è stato elaborato in un periodo drammatico della storia di Israele: l’esilio babilonese. Nella distretta storica, il Sacerdotale produce l’immagine più alta della teologia a proposito dell’uomo, quasi a ricordare agli esuli la grandezza originaria di ciascuno: vita, amore, relazione.
In un periodo certo di maggior fasto, durante il periodo salomonico, il saggio Jahvista (Gn 2,4 ss.) ricorda invece di stare coi piedi per terra: l’uomo è tratto dalla polvere e ad essa ritornerà. La descrizione iniziale riecheggia il deserto della tentazione e della prova. Ma il deserto è anche il luogo dell’incontro con Dio e della ricezione della Torah che costituisce essenzialmente il destino di Israele. E tuttavia l’incontro precipita l’uomo in una dolorosa dinamica di autodistruzione. La vicinanza distrugge, rivelando una rabbia rancorosa e malcelata. Il confronto con Dio, schiacciante, sfocia in una rivolta che ribalta il tavolo perché la siepe che circonda il giardino appare ora un giogo che strangola e opprime. Quella Legge che il sacerdotale concepisce come un ordine universale e festoso, s’avvelena nell’orgogliosa visione dello jahvista. Lo sguardo del testo muta profondamente: l’uomo, dapprima imago dei perché relazione amorosa e vitale, si rivela attossicato da un malheur mortale. Quella relazione amorosa che lo costituisce si distende nel tempo e si disfa, rivelandosi un’illusione. Il grido di gioia iniziale per la meravigliosa invenzione della donna, cede il posto a una faida spietata tra amanti disillusi e rancorosi perché incapaci di assumersi le proprie responsabilità di quanto è accaduto. La vita ordinata dell’inizio è spezzata e travolta. Persino i figli ne sono coinvolti sin nel nome che li identifica. Vapore (Abele è un nome parlante) e Acquisto (Caino, anche lui un nome parlante) sono gli estremi lembi della lotta che divide i genitori, ciascuno spinto fino al parossismo ad interpretare un ruolo non suo, bensì gettato addosso dai progenitori e tuttavia incapace di liberarsene. Alla cacciata fa seguito il fratricidio e a quello la vendetta, sino a che il diluvio non ricopre nuovamente il mondo intero, purché si salvi una famiglia almeno e la storia riprenda. Al Dio affidabile e sicuro, ma distante, del sacerdotale segue il Dio paterno e provvidente nella vicinanza del giardino, a cui tutto però riesce male e solo a stenti conduce un dialogo fruttuoso con la propria Immagine. Qualcosa s’è rotto per sempre. Eppure questa rottura è l’inizio della storia stessa, giacché quell’idillio vitale iniziale pare ormai solo un lontano ricordo. Unilaterale, forse. Non semplicemente falso, però.
Nel mito ciò che viene prima viene messo poi, e viceversa. Se il sacerdote scrive in esilio è perché il regno che lo precede è perduto. Ma, nel testo, l’esilio sta prima del Regno perduto, rovesciando la storia come fosse un guanto. La storia procede a ritroso, ribaltandosi. Nell’esilio della cattività c’è il meglio dell’uomo; alla corte del re, il peggio. Il meglio vien riconosciuto dopo perché c’era già prima e dunque è sempre possibile; ora, però, alla gloria del Re s’associa la disfatta morale e la morte se alla distretta del Sacerdote si confanno la vita e la giustizia. Non è un caso. Una nuova leadership s’impone retrodatando se stessa sin dall’inizio del tempo. Come a dire: c’eravamo noi prima della disfatta anche se solo ora è possibile riconoscerlo. Eppure i testi stanno insieme perché non c’è Elohim senza Adonai per chi ha redatto il testo. Che intenzione ha? L’uno e l’altro dicono qualcosa per se stessi. Insieme dicono altro, formando un simbolo da due parti dapprima spezzate e cozzanti tra loro, ora unite in una nuova armonia. Due mondi si toccano fino a fondersi nelle mani di nuovi scrivani di professione capaci di unire ciò che era diviso e comporre ciò che era scomposto. È l’apparire di una nuova figura religiosa che riluce in questa cucitura: quella del Maestro che relativizza gli opposti e propone una nuova immagine capace di dar posto all’apollinea visione legale del Sacerdotale come alla dionisiaca drammatica dello Jahvista. Entrambe hanno posto, ciascuna il proprio posto nel testo. Ma il proprio è riconosciuto da altri e altre mani rimescolano le carte, giocando una nuova partita con le stesse carte. Così, il testo parla tre volte, come un coro costituito da tre solisti. Una voce sola si sente, eppure sono tre. Quattro se contiamo anche la voce del lettore che riconfigura il testo. Un’intera orchestra, se questa è destinata a una comunità di lettori, diretta dall’interprete che la esegue a nome di tutti.
Possiamo tentare un’ascesi a Dio a partire da questo rimescolamento che il testo opera con tanta disinvoltura. Re, Sacerdote e Maestro coesistono nel testo ad opera di quest’ultimo. Ciascuno costituisce un tratto essenziale del testo come della fede di Israele. Tuttavia, i tratti della legalità regale si sono trasferiti nella funzione sacerdotale, permeandola di sé, dando vita a un’immagine iniziale che è l’ipostasi dell’ordine, nel momento in cui i contorni della Torah che costituisce Israele come un popolo di sacerdoti tralucono nel giardino dell’Eden spingendo al parossismo la narrazione drammatica della dissoluzione regale. L’una e l’altra rivelano un lavorìo intessuto di quella intelligenza sapienziale che è connaturata al redattore rabbinico che ribalta la storia con arguta ironia. Il testo, però, riconosce tutte le mani e le voci che esso testimonia dando la misura del tempo come in una partitura musicale. L’Ouverture sta prima perché è stata riconosciuta dopo il dramma della caduta come ciò che non era possibile dire che dopo di essa. In ciò sta il valore permanente del Dramma: di essere un momento intrinseco al riconoscimento di ciò che costituisce essenzialmente il valore più alto della vita e della fede biblica in quanto fede in un Dio che fa della distanza e della riservatezza un momento essenziale della propria legalità agita a favore dell’uomo. Il tentativo idilliaco di avvicinarsi a Dio, infatti, è puramente illusorio giacché rivela più radicalmente un’ira celata per la propria condizione di miseria e precarietà. Ma è bene che anche questa ci sia perché l’uomo riconosca se stesso nell’uno e nell’altra, se la mano che lo conduce è quella amichevole e schietta del Maestro che riunisce in sé anche i titoli di Re e di Sacerdote fondendo così credere, potere e sapere nel corpo del testo.
Siamo giunti alla fine ritrovando un nuovo inizio: il corpo del testo è in se stesso uno e trino. Un coro a tre voci abita la casa che è ad un tempo reggia, tempio e scuola. In effetti nessuna di queste, bensì tutte e tre insieme hanno parlato nelle mie parole per voi, istituendo per un breve istante una comunità di lettori.
Non dico altro. Vi lascio dunque riflettere su quanto ho detto e scritto, augurandomi di deporre una piccola traccia nella vostra memoria. Fatene l’uso che credete migliore.
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