La religione della libertà

Scritto da F. Bertoglio

Il 26 Nov 2013

La religione della libertà

Specialmente nei paesi che hanno fatto esperienza di guerre e del crollo spirituale di tradizioni amate e credute, il dato tradizionale passa per sospetto, non solo per il suo contenuto, ma già per la sua forma, perché rappresenta ciò che è stato. Il linguaggio dei giovani cambia rapidamente, si fa aspro ed essenziale; porta scritto in fronte l’impazienza, vuole essere il trampolino di lancio nel futuro, al quale è aperto e preparato.

Nel linguaggio di Balthasar, pieno di speranza e ingenuamente fiducioso verso le possibilità più proprie dello spirito dei contemporanei, possiamo certo vedere il tentativo di scrollarsi di dosso la pesante eredità degli orrori delle guerre da poco lasciate alle spalle; più profondamente cogliamo, però, un aspetto essenziale dell’attuale situazione della religione in Occidente. Nel corso dei secoli la cristianità si è frantumata al suo interno, ha smesso inoltre di costituire un sicuro riferimento per la civiltà che la ospita come un frammento di cui non si è ben sicuri dove debba essere collocato. L’espressione conduce allora ad immaginare che la religione sia parte di un affresco che stiamo osservando, e che tuttavia non ci appartiene. Ma l’imbarazzo non è soltanto dovuto alla sensazione di estraneità che percepiamo, bensì, e più radicalmente, alla convinzione della radicale intimità in cui dobbiamo tenere l’esperienza religiosa, rispetto alla quale, la vicenda secolare della Chiesa, ma forse sarebbe meglio dire delle Chiese, appare puramente formale ed inadeguata e lo sforzo che venisse richiesto qualora volessimo venire a capo dei problemi attuali della Chiesa, non condurrebbe che ad una stanchezza così insinuante, da paralizzare l’azione. In effetti, la religione ha trovato nell’impegno individuale l’estremo rifugio al dubbio devastante operato dallo spirito tecnico-scientifico e rafforzato dalla sua straordinaria capacità di ottenere successo. È questo che conta per l’uomo di oggi: sentirsi impegnato, senza peraltro poter argomentare null’altro che il proprio impegno. In questo modo, è la religione di Dio che viene meno, avendo già l’uomo colmato l’abisso.

Dall’uomo medievale a quello moderno

Non si creda che l’impresa sia del tutto inedita. Sin dall’antichità, la cristianità ritenne di dover proporre universalmente il proprio messaggio attraverso l’uso delle categorie della religione naturale, o della filosofia. In questo modo, il cristianesimo si offriva alla comprensione di tutti, accontentando le varie forme della religione e del pensiero nella diffusa convinzione di proporre una migliore e più riuscita comprensione dell’intera vicenda umana, perché riteneva di trasmettere la verità di Dio di cui è segno la natura stessa. All’ingenuità di questa convinzione, faceva corpo la fiducia nelle proprie possibilità di articolare la migliore delle civiltà possibili. Di qui l’appropriazione della filosofia, della fisica, di ogni aspetto della vita, sequestrati dalla religione nella forma della teologia. D’altra parte, non è Dio manifesto in ogni opera e concezione del mondo? Non stupisce dunque la paradossale affermazione di Giustino († ca. 165 d.C.), il grande apologo del cristianesimo: Tutto ciò che è stato detto di vero, appartiene a noi cristiani.

Sia chiaro, ciò che poteva apparire una continuità ideale, finì per essere percepita come reale. Allora, i cristiani alla corte del re franco possono vedere in Socrate un discepolo di Cristo, come Boezio (480-524) può consolarsi con la filosofia, perché Cristo è ritenuto il logos del mondo; sia pure inconoscibile e trascendente, in una parola, superiore ed alieno da tutto ciò che l’uomo può dire ed asserire, Cristo è tuttavia essenza costitutiva del mondo. Cusano (1401-1464), che si riallaccia a Boezio, vivendo in un’epoca in cui è già evidente la differenza dei riti nelle varie religioni, intuisce che non può esserci che un’unica sapienza quale composizione di tutte le sapienze particolari. Ma perché ciò sia possibile occorre riferire le esperienze particolari ad un comune soggetto, trascendente ed inconoscibile, vale a dire capace di disporre in proprio della libertà. Rispetto a quello, le particolari tradizioni religiose sono dovute all’ignoranza delle popolazioni, che scambiano i riti con la divinità.

In verità, proprio qui si colloca una differenza profonda con l’antichità greca, che concepisce il mondo nel quadro di limiti precisi di cui il divino costituisce il supremo ordinamento. L’Essere parmenideo riconduce la molteplicità ad un elemento permanente; Platone concepisce il bene come un che di trascendente strutturalmente connesso al mondo delle cose, al punto da poter concepire la verità come semplice esattezza; infine l’essere aristotelico non è se non la tensione al movimento che è propria della natura. È ben vero che in questa visione della realtà tutto è aperto ad una interrogazione ulteriore, finendo per rendere possibili infinite esperienze del reale. Tuttavia, l’Essere viene per lo più concepito alla stregua delle cose disponibili. Il Bene, diviene l’Ente supremo il cui valore (Bonum) consiste nel causare e conservare gli enti; in Aristotele, l’idea di Platone diventa forma di una materia la cui sintesi è l’ente. Concepito in questo modo l’Essere, lo studio della filosofia consiste nella determinazione dei caratteri generali delle cose (gli enti) e come determinazione delle proprietà dell’Ente Sommo. Ad una considerazione attenta, non può sfuggire lo slittamento di luogo e di campo: quasi che la considerazione dell’Essere in generale non venga accolta per procedere senz’altro ad un’ovvia determinazione delle cose. Così, nell’avvio della filosofia, sembrerebbe celarsi già il suo tramonto, quello che verrà chiamato l’oblio dell’Essere, la nozione più ovvia e perciò più oscura che la stessa filosofia ha prodotto.

Guardando l’Essere, la filosofia classica ha pensato l’ente. D’altra parte, la cosificazione dell’Essere, se può ancora passare per una necessità della conoscenza delle cose del mondo, non appare altrettanto congrua alle questioni che agitano la coscienza dell’uomo stesso. Spinto dalla determinazione delle cose, il bene stesso diviene valore, vale a dire ciò che vale assolutamente, a prescindere dal riferimento all’apprezzamento e alla decisione dell’uomo. Ma quando le risposte che egli attende sono guidate dalle ovvietà che la tecnica produce in base alle conoscenze scientifiche, è l’uomo stesso a soffrirne, ridotto a cosa fra le cose. In questo modo, la considerazione dell’Essere alla stregua dell’ente disponibile produce un uomo la cui morale è posta tra due estremi: la natura e il fine. In effetti, già Socrate invocava il daimon per dire l’origine degli apprezzamenti morali; origine previa ad ogni mediazione della coscienza morale riflessa. E l’invocazione attuale del sentimento dei valori quale fondamento della loro ovvia dignità umana conferma l’estraneità dell’esperienza morale rispetto alla coscienza: per esso, il valore è sentito così come la sensazione percepisce le cose. Pensiamo, inoltre, a quella cultura della ricchezza e del benessere che rafforza nell’uomo quel sentimento di scontentezza e di labilità che i medievali chiamavano accidia.

D’altra parte, è l’inquietante ambiguità dell’esperienza morale che suggerisce le vie di fuga. Allora l’uomo trova nella ϕυσις, intesa quale potenza che esige un atto corrispondente per essere perfezionata, la propria rappresentazione statica, oggettiva, definita a prescindere dalla coscienza che ha di sé, e perciò tanto più tranquillizzante. Si pensi alla dimenticanza che questa argomentazione ha prodotto circa la rilevanza del rapporto intersoggettivo per la costituzione dell’identità individuale. Si pensi, inoltre, alla pochezza con cui l’argomentazione naturalistica della morale ha trattato il tema morale della sessualità, intesa riduttivamente alla stregua della funzione procreativa, finendo oltre tutto per concepire l’atto coniugale come un debito reso da un coniuge all’altro. Quale raffinata astuzia della ragione può aver indotto i moralisti a dimenticare l’esperienza densa e oscura, inquietante e piacevole che lega l’uomo e la donna, è cosa impossibile da capire. Se poi veniamo a considerare l’etica finalistica, anch’essa assume ai nostri occhi i tratti alienanti della tecnologia. Se, infatti, il fine dell’intenzione umana viene determinato a prescindere dall’agire stesso, che non si rivela, per questo, altro che l’esecuzione del senso che la conoscenza ha individuato per esso quale criterio per la valutazione dell’adeguatezza delle sue opere, allora l’adagio rivela tutta la sua brutalità artigianale, sostituendo il discernimento del desiderio col fine prodotto dalla sola coscienza teorica.

Nella nuova visione medievale, dicevamo, Dio non appartiene al mondo, bensì sta di fronte ad esso assolutamente libero. A comporre questo quadro concorrono la rivelazione di un Dio creatore trascendente propria della rivelazione biblica, e, forse, la tensione tipicamente germanica verso l’infinito. Ma la superiore qualità etica che ha consentito l’affermazione del cristianesimo dei primi secoli si esprime ancora attraverso l’attenzione al mondo interiore del sentimento e della responsabilità di fronte all’esistenza. Il cristianesimo fornisce allora la chiave interpretativa dell’intera esistenza consentendo l’ambientazione dell’uomo nel mondo, in un generale clima di fede che integra le esperienze fondamentali dell’uomo di quel tempo, i sistemi di pensiero come i processi della cultura diffusa. Più precisamente, la rivelazione autorevolmente formulata nei dogmi e ricevuta nella fede di ciascuno costituisce il criterio conoscitivo dell’intera realtà. La natura, le auctoritates, persino i classici vengono raccolti nell’unica visione offerta dal principio della rivelazione, la cui elaborazione è il compito della teologia.
Non deve sfuggire che l’apporto peculiare dell’epoca medievale sta precisamente nella razionalizzazione della rivelazione nel quadro di un sistema conoscitivo, morale, istituzionale che plasma l’intera esistenza, rispetto al quale non sorgono che contestazioni di aspetti solamente marginali. Il Medio Evo non conosce l’obiezione radicale al credo che qualifica bensì l’epoca moderna. L’atteggiamento diffuso nei confronti della tradizione è piuttosto quello della ripetizione, costruttiva anche se acritica. Certo, non comunque nel senso della mera ripresentazione dei pensieri degli antichi, la riflessione avveniva, però, senza la piena consapevolezza della distanza storica e dello sforzo di sintesi critica necessari al buon esito dell’impresa, quasi non si potesse essere consci della propria irrinunciabile singolarità.

La tradizione teologica cristiana appare dunque largamente tributaria della riflessione razionalistica occidentale, in particolare nell’episodio tomista. In effetti, nel quadro di tale impostazione, la riflessione morale esclude il riferimento all’esperienza del desiderio e delle emozioni. Se si evita il rischio stoico dell’ideale apatico, affermando il piacere quale perfezionamento dell’atto morale, ciò non comporta il riconoscimento dell’emozione quale elemento originario dell’apprezzamento etico. Esemplare è lo slittamento della nozione di appetitus nel quadro dell’ontologia naturalistica. Essa non esprime l’originaria inclinazione dell’uomo, bensì solo la l’orientazione finalistica della funzione organica nel quadro dell’apprezzamento etico operato dalla ragione. E l’insistenza unilaterale sulle note della considerazione razionalistica del fatto morale, ha precluso alla tradizione dottrinale cattolica l’intelligenza dei presupposti emotivi dell’esperienza pratica. Né la ripresa personalista della dimensione espressiva e interpersonale ha portato una significativa chiarificazione intorno a questi temi; vuoi per il suo carattere di reazione polemica, vuoi per l’esiguità della riflessione teorica prodotta.

Già e non ancora

La mancanza di memoria storica della riflessione teologica recente sui temi morali, come dell’esperienza religiosa quotidiana, deve dunque la sua ultima spiegazione alla incapacità della riflessione della tradizione cristiana di offrirle punti di riferimento significativi sui problemi posti dalla vicenda sociale di oggi. Certo, la magistrale riflessione di Agostino o Lutero e di Tommaso sarebbe ben più autorevole dei manuali di teologia moderna, sequestrati dall’esclusiva prospettiva casuistica elaborata a fronte della crisi di fede che delegittimava l’autorevolezza della fede, e forse potrebbe ritenersi capace di motivare il pensiero cristiano oltre il riferimento immediato all’Illuminismo e al romanticismo. D’altra parte, proprio a motivo della ripetitività che è essenziale alla tradizione medievale, conviene tenere presente il carattere normativo dell’etica sociale delle Scritture cui si ispira la fede cristiana nei suoi orientamenti fondamentali.

Se la tradizione veterotestamentaria istituiva la questione sociale nello spazio della dialettica fra universale destinazione del popolo di Dio al bene e particolare consenso alla libera determinazione del bene, concludendo paradossalmente con la radicale condanna gettata sull’azione degli uomini ad opera della loro stessa tendenza al male, la predicazione di Gesù si rivolse esplicitamente alla libertà individuale piuttosto che alle relazioni sociali regolate, di modo da configurare per la legge evangelica uno spazio di senso ulteriore rispetto a quello delle leggi e consuetudini umane. Tuttavia, il comportamento di Gesù non legittima alcuna fuga in avanti rispetto alle norme ed ai poteri stabiliti istituzionalmente; e su questo modello si plasmano anche le relazioni sociali della prima comunità cristiana che predica la pacifica obbedienza alle istituzioni politiche accanto al giudizio di condanna che la venuta del Regno pronuncia sul mondo sociale nel suo insieme. Così, nelle Scritture, il compito civile si raccomanda alla libertà dell’uomo per la sua ovvietà, vale a dire per l’evidenza con cui esso appare nell’esperienza umana universale; ma al tempo stesso esso è il frutto di un comandamento, cioè a dire, non si giustifica per se stesso, alla luce dei beni che esso consente all’uomo di acquistare. D’altra parte, l’impresa civile non viene descritta come una semplice progressione dell’uomo verso il meglio, bensì come una progressiva decadenza dall’esperienza archetipa dell’intima comunione dell’uomo con Dio. La letteratura biblica quindi, abbozza una lettura della storia universale a partire dalla fede; lettura da cui non si può prescindere, ma neppure si deve ripetere, vuoi per l’insuperabile linguaggio mitico in cui essa è espressa e che esige appunto di venire decifrato, vuoi per la differenza peculiare dell’epoca storica che viviamo rispetto alla situazione biblica, vuoi per la natura stessa del messaggio biblico che, valutando la vicenda dell’uomo nella sua costitutiva ambiguità, istituisce la necessità della responsabilità singolare dell’uomo di non astrarre da questa effettività. Così che, se per un verso appare necessaria una ripresa dei sistemi interpretativi atti ad intendere la storia peculiare dell’epoca moderna, la riflessione cristiana non può consegnarsi ad essi come tali, bensì manifestare il loro carattere problematico e come tale capace di postulare il rinvio ad una istanza assoluta. La teologia può legittimarsi come istanza critica della civiltà contemporanea solo se giustifica la peculiare interpretazione che la fede dà della storia dinanzi alle nuove condizioni dell’esperienza di cui è interprete il principio moderno dell’autonomia della libertà. Ciò implica anche una reinterpretazione della storia delle dottrine cristiane che la modernità ha assunto dapprima come termine di paragone per la sua stessa costituzione.

I primi cristiani non mancavano di far notare al mondo pagano, pregiudizialmente diffidente nei loro confronti, la loro affidabilità in quanto leali cittadini dell’impero. È noto, l’ostilità trovava le sue motivazioni sia nei comportamenti riservati dei cristiani, assai restii a mescolarsi agli usi delle manifestazioni pubbliche in quanto essenzialmente pagane, sia nella loro struttura sociale comunitaria che veniva percepita dall’esterno come una minaccia all’ordine sociale costituito. Oltre a ciò, l’obiezione nei confronti di alcuni mestieri, la proibizione di osservare il culto dell’imperatore, l’utopica propensione verso la rifondazione totale della società legittimata dall’avvento definitivo della divinità, costituivano l’insieme dei motivi che impedivano di fatto l’integrazione sociale dei cristiani. Finché la comunità cristiana costituì una parte senza dubbio di minoranza della società, la tensione fu essenzialmente posta tra questa e il vangelo. Ma quando la società nella sua interezza divenne cristiana, apparve evidente la collisione fra ideali evangelici e realtà politica. Allora il cristianesimo elaborò strategie di differenziazione, sia nel senso della riforma utopica della società civile, sia nel senso della contestazione del sequestro della novità cristiana ad opera dell’appartenenza ecclesiastica. In questo quadro, la Chiesa, ormai identicamente società civile e religiosa, non sembra poter più garantire un accesso genuino alla pratica delle verità rivelate. Di fatto, la compenetrazione di Chiesa e società alimentò anzitutto atteggiamenti sfumati, poco inclini al radicalismo evangelico, che in qualche misura presero atto della difficoltà di identificare norme evangeliche e convivenza civile.

Nel quadro della composizione irenica fra cristianesimo e società pensiamo di poter iscrivere il pensiero di Tommaso d’Aquino (1225-1274). Definendo le quattro leggi, eterna, naturale, umana e divina, entro lo spazio complesso dell’analogia offerta dal concetto di lex, ultimamente determinato dal riferimento alla legge umana in quanto razionale, Tommaso finisce per legalizzare la morale sacralizzando il diritto. La legge umana, in quanto legge naturale disciplina gli atti nella direzione di una introduzione alla vita beata. Come tale essa supera le facoltà naturali dell’uomo, perciò deve essere rivelata da Dio. La legge divina e la legge naturale orientano dunque l’uomo al suo fine, benché non sia chiaro in che modo il fine naturale si connetta con quello divino, pur essendo il medesimo. Fu così che i commentatori introdussero un duplice fine, separando la legge naturale da quella soprannaturale. In effetti, già in Tommaso la legge naturale tende a coincidere con quella civile, così che la legge evangelica, in quanto interiorizzazione dell’antica, finisce per essere irrilevante. Sul piano civile, la legge evangelica ha semplicemente il ruolo di consilium alla coscienza circa l’eventualità di comportamenti eccedenti la stretta considerazione della giustizia, il cui luogo è principalmente la coscienza. In tal modo, Tommaso relega la morale evangelica in una ulteriorità, che in quanto “impossibile”, finisce per essere priva di effetto sulla questione civile che finisce per identificarsi coi modelli della tradizione giuridica. Quanto a questa, appare astrattamente concepita quale opera della ragione che determina o conclude dai principi della legge naturale, finendo, nei suoi esiti, per costituire il puro e semplice avvallo dell’esistente. In quanto generale, la legge morale è considerata come ovvia ed acquisita al comune consenso, perciò bisognosa di una ulteriore determinazione nella legge umana il cui compito è di mediare fra la legge generale rappresentata dai loci communes e il caso particolare che necessita di un criterio normativo capace di ricondurlo all’evidenza del bene comune, in quanto questo è ritenuto il fine ultimo dell’uomo. In questo modo, Tommaso finisce per reificare la differenza fra il bene temporale e il destino ultimo dell’uomo così come è realizzato nella legge divina.

Nella ripresa moderna di Tommaso, fatalmente, l’argomentazione naturalistica della morale finisce per confondere il piano della fede con quelli della cultura e dell’etica, realizzando implicitamente una omologazione di quella con questi. In questo quadro, morale è l’atto che perfeziona le disposizioni naturali dell’uomo, avendo cura di rappresentare la natura dell’uomo in termini oggettivistici, vale a dire, a prescindere dalla considerazione che l’uomo ha di sé nell’esperienza effettiva irrimediabilmente connotata emotivamente, e dunque a prescindere dal rapporto intersoggettivo che sostanzia quell’esperienza. Come abbiamo visto, il difetto della tesi sta in ciò, che essa non governa sufficientemente la reciproca distinzione dei concetti di morale, cultura, fede, ritenendoli, alla fine, sullo stesso piano, in quanto egualmente capaci di determinare la volontà dell’uomo al fine ultimo voluto da Dio, già riconosciuto analogicamente dalla ragione.
Diversamente da Tommaso, Lutero rappresenta il tratto radicale della cultura politica cristiana: vuoi per i tratti polemici che costituiscono l’occasione della sua opera, vuoi per la concezione di fondo della storia intesa come conflitto fra due regni, entrambi Regni di Dio. Essi sono due momenti dell’esistenza cristiana su cui Dio stesso esercita, in diversi modi, il suo dominio. L’autorità civile è coercitiva giacché solo in questo modo la convivenza umana è effettivamente possibile nella condizione di peccato in cui versa l’umanità; in tal senso essa è voluta da Dio. D’altra parte, l’obbedienza alla legge dell’autorità temporale è misurata sull’opera esteriore, perciò è politica e prescinde dalla valutazione della libertà. L’obbedienza alla legge allora, è funzionale alla sopravvivenza della società, ed in quanto tale, prescinde assolutamente dall’intenzione con cui è compiuta. In questo modo, Lutero finisce per ridurre l’etico al giuridico. L’origine dell’autorità civile, dunque, è la sua funzione coercitiva, il cui scopo è il mantenimento della coesione sociale. Perciò l’ordine sociale deriva da Dio, che, in quanto è super partes, esercita il dominio. Tuttavia, se la signoria di Dio sull’uomo peccatore mira a rendere giusti quelli che per se stessi sono solo peccatori, non si può rendere giusto un uomo costringendolo: perciò la Parola impone all’uomo il perdono incondizionato, liberandolo dall’obbedire sotto condizione. La Chiesa è precisamente questo “regno della mano destra” nel quale ogni coercizione perde di senso di fronte al ministero della parola perdonante di Dio. Il singolo cristiano è dunque posto da Dio sotto la legge dell’amore mentre, in quanto membro della società, si espone alla coercizione della legge antica. Come membro della Chiesa di Dio, il cristiano è sottoposto alla nuova legge dell’amore perdonante; in quanto membro della società umana, continua ad essere sottoposto alla legge antica la cui funzione rimane l’ordine fra gli individui. Allora, gli ordinamenti economico, politico, sacerdotale, sono voluti da Dio nella distretta del peccato, e sono, come tali, sottoposti alla legge antica, in quanto radicalmente estranei alla legge dell’amore evangelico. L’argomentazione “teleologica” della morale finisce per distinguere il piano della fede da quelli della cultura e dell’etica, realizzandone esplicitamente la separazione. In questo quadro, morale è l’atto giuridico, vale a dire, l’atto concepito nei termini dell’agire strumentale, avendo cura di distinguere la sfera dei rapporti sociali che soggiacciono alla loro obiettiva strutturazione nelle istituzioni “politiche”, dalla sfera individuale cui si riferisce la morale evangelica. In questo modo, in quanto sottrae le relazioni sociali all’influenza della morale evangelica, Lutero finisce per predestinare la morale cristiana all’inattualità della coscienza privata.

La vicenda esposta ha una sua morale. Non c’è dubbio che le concezioni di Tommaso e di Lutero riflettono la situazione socio-culturale del loro tempo nel momento in cui tendono a prescindere dalla fatticità della società cui si riferiscono, per assurgere al livello “superiore” dell’argomentazione teologica. A ciò potevano essere indotti dalla natura stessa della società cui appartenevano: composta di due ordinamenti comunque riferiti ad un’unica autorità trascendente pacificamente riconosciuta nella fede, la società medievale appariva statica e sostanzialmente immutabile. Venendo meno questo presupposto, verrà meno la legittimità sociale delle loro teorie. Rimane il fatto che esse pongono un problema inevitabile per la coscienza cristiana: vale a dire la necessità di un comandamento come si configura già nell’esperienza umana universale del potere politico, come dei rapporti fra gli uomini, e che ultimamente fa riferimento alla categoria della fede. Il problema si precisa ulteriormente se ci lasciamo istruire dall’esito riduttivo di entrambe le teorie: non c’è dubbio infatti che entrambi gli autori abbiano veduto l’emergenza della fede rispetto alla cultura e all’etica. Tuttavia, quell’esito fu dovuto precisamente alla mancanza di complessità della cultura che essi comunque condividevano. È un problema di articolazione — e un problema di non poco conto, visto col senno di poi, alla luce della crisi del cristianesimo — degli ambiti propri della fede, della cultura espressa dalla civiltà occidentale, della morale. Tutte concorrono alla determinazione del destino dell’uomo, ma con quali esiti è cosa che si decide chiarendo la dialettica che ne regola i rapporti. Da un lato, non c’è morale senza mediazione sociale, dall’altro, la libertà non può essere il semplice prodotto di alcuna forma sociale. Così che, mentre l’uomo deve sostenere la propria autonomia, non può farlo che nell’effettività della vicenda storica. L’assolutezza propria del concetto di libertà non può essere giustificata se non rinviandola ad un senso che la supera e che tuttavia deve perseguire in quanto voluto nella forma di una anticipazione realizzata dall’Assoluto che appella la libertà stessa. Il senso ultimo della libertà non si dà che nella forma dell’appello dell’Assoluto alla coscienza, ed il suo carattere trascendente, del quale nessuno può impadronirsi, è il fondamento della restituzione del senso ad ogni uomo.

La fede è appunto la figura dell’autoaffermazione, in cui la libertà prende coscienza di volere ciò che può e inversamente. In quanto tale, essa non può essere ricondotta ad un principio naturale: essa è un evento essenzialmente singolare della libertà che accede al suo compimento. In questo senso si può parlare di fede cristiana: essa afferma l’assolutezza dell’evento di Gesù di Nazareth, in quanto lo riconosce quale realizzazione delle condizioni della sua stessa evidenza. Per lo stesso motivo, la libertà non può esaurirsi nella ratifica di una tavola di valori posta da una qualsiasi cultura: se questa è la forma della natura plasmata dalla libertà, i valori che pone trascendono le valutazioni singolari di questo e di quello e fanno riferimento alla storia dei costumi, perciò si presentano come bene comune iscritto nelle istituzioni pubbliche. Ma in quanto tali, i valori non esauriscono la ricchezza della libertà, bensì la collocano nella sfera dell’etico rimandando ad un senso ulteriore, inoggettivabile, sospeso alla libera determinazione dell’uomo. In quanto la cultura rappresenta l’iscrizione della libertà nelle forme storiche dei valori collettivi, essa se ne approssima quanto più è possibile, e tuttavia non è capace di per sé di un senso definitivo. Perciò, la considerazione della vicenda umana in quanto storia del progresso dell’uomo verso il meglio, non è che un’astrazione che appiattisce la complessità della storia. L’idea della storia in quanto esperienza dell’unità della vicenda dell’uomo non è possibile che alla luce dell’evento che realizza questa unità poiché è al tempo stesso il compimento della stessa libertà. È questa l’affermazione della fede cristiana, che pone l’evento di Gesù di Nazareth al di fuori della serie degli eventi possibili e con ciò garantisce alla storia senso e prospettiva unitarie senza sopprimere la singolare pluralità di ogni suo aspetto. La fede fornisce il criterio di discernimento insieme critico ed ermeneutico tra ciò che deve essere considerato congruo al raggiungimento del destino ultimo dell’uomo e ciò che se ne allontana mortificandolo. Essa è questo esercizio.

Perciò l’interpretazione del destino storico e civile dell’uomo è un momento essenziale della sua stessa intelligenza e della sua pratica. In quanto la fede trascende ogni determinazione storica, essa è più che l’esercizio critico che svolge qui ed ora a favore dell’uomo; in quanto essa non perviene alla sua evidenza che nell’esperienza effettiva della verità che essa stessa rende possibile, non può mantenersi tale che nell’esercizio dell’interpretazione critica delle sue condizioni culturali. In altre parole, si potrebbe dire che la fede realizza per l’uomo la condizione per cui è possibile, e dunque doveroso, stare a guardare ciò che si manifesta alla luce della verità di cui non si dispone e tuttavia vi si consente. Possiamo dunque comprendere la necessità di una interpretazione teologica della modernità: essa, in quanto rappresenta una comprensione totalizzante della storia, spinge l’intelligenza della fede a istituire da sé la propria distinzione, evitando allo stesso tempo di estraniarsi dai processi che costituiscono la convivenza civile come di appiattirsi sul comune consenso in una sua malintesa funzione culturale.

La separazione di fede e ragione

Forse, l’impresa che più è in grado di rappresentare lo sforzo di assimilazione razionale del divino peculiare dell’epoca moderna è la Teodicea. Non c’è dubbio che il problema del male costituisce una sfida originaria per la religione come per il pensiero. Il mito biblico, integrando l’esperienza del male nel quadro della genesi del mondo da parte di un Dio la cui radicale differenza dalla creatura ne preserva la libertà, tende a proporre una visione morale del mondo in cui sono percorse infinite risposte al problema dell’origine del male. Diversamente dal mito, la Sapienza pone il medesimo problema a livello dell’individuo e sostituisce il racconto con l’argomento. Con l’idea della retribuzione la realtà può apparire come ordinata: il male possiede infatti una sua causa nella libertà di peccare, individuale o collettiva, o addirittura nella volontà di male contestata alla divinità. Tuttavia, l’esperienza della relativa innocenza dell’uomo rispetto all’enormità del male subìto costituisce una contestazione formidabile dell’ordine morale del mondo. A questo scopo le riflessioni di Giobbe e di Qohelet all’interno della letteratura sapienziale biblica pongono il problema della compatibilità della volontà di Dio con la “gioia di vivere” dell’uomo.

Perché dar luce ad un infelice 
e la vita agli amareggiati nell’animo, 
a coloro che attendono la morte che non viene, 
e si affannano a ricercarla più di un tesoro, 
che godono andando verso un tumulo 
ed esultano perché trovano una tomba; 
a un uomo il cui cammino è nascosto, 
e che Dio da ogni parte ha sbarrato?

La soluzione al male indicata da questi testi sta nel tentativo di rovesciare la pretesa di individuare un ordine morale del mondo che sia calcolabile, nell’affermazione di una libertà che crede nell’efficacia del desiderio di Dio che coincide con il desiderio dell’uomo e di cui costituisce l’inesauribile risorsa.
Riconosco che puoi tutto e nessun progetto ti è impossibile. 
Chi è colui che denigra la tua cura 
senza nulla sapere? 
È vero, senza nulla sapere, 
ho detto cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Ascoltami, di grazia, e lasciami parlare, 
io ti interrogherò, tu mi istruirai. 
Io ti conoscevo per sentito dire, 
ma ora i miei occhi ti hanno visto. 
Perciò io ritratto e mi pento sopra la polvere e la cenere. Lontana da tutto ciò, la teodicea moderna mira invece alla coordinazione logica di tre proposizioni considerate astrattamente: Dio è onnipotente e infinitamente buono, il male esiste, tuttavia Dio non ne è il responsabile. Alle spalle starebbe la deriva della visione agostiniana di una libertà umana radicalmente incapace di bene, perché naturalmente limitata di fronte al Bene divino. La creatura non può che tendere al niente, se guardata dalla parte della perfezione del creatore. Allora, non si pone la questione di dove venga il male, bensì perché avviene che noi facciamo il male. La caduta di Adamo ha introdotto il male nel mondo della storia, ora divenuta pena. Il tentativo di scagionare Dio dal male passa dunque per la distruzione della fiducia nella natura della libertà umana; negando ogni spessore ad un male che la antecede.

Rispetto alla logica classica, Leibnitz (1646-1716) introduce il guadagno del principio del meglio: la creazione effettiva risulta dalla competizione, nell’intelletto divino, dei modelli possibili di mondo di cui uno solo realizza il massimo della perfezione con il minimo di difetti. Vale a dire: il male è una condizione ineliminabile del creato dal momento che Dio non saprebbe creare un altro Dio, ma solo il migliore dei mondi finiti, perciò imperfetti. È evidente che il calcolo delle proporzioni di male e di bene sfugge, e che perciò l’affermazione che il mondo reale è anche il migliore possibile risulta alla fine un azzardo alla cui radice sta il calcolo di un possibile modello umano di mondo. Si può affermare che, non appena Dio decreta di creare qualcosa, si stabilisce un conflitto tra tutti i possibili, che pretendono tutti all’esistenza; e quelli che, connessi insieme, comportano più realtà, più perfezione, più intelligibilità, prevalgono. …Per quel che riguarda il vizio, si è mostrato più sopra che esso è un oggetto del decreto divino non come mezzo, bensì come condizione sine qua non, e solo per questo è permesso. In ogni caso, il problema del male introdotto dall’uomo è strutturalmente connesso con la questione di Dio e la visione del mondo, almeno quanto l’uomo è il prototipo del cosmo. Il complesso di bene e di male che inerisce l’uomo e il suo mondo è, contrariamente all’apparenza proiettata dall’esistenza del male, il migliore possibile, se con ciò si intende l’accordo delle parti il cui movimento risulta alla fine, cioè a noi, ben ordinato. Difetti e orrori conducono a considerare se tutto possa essere perfetto solo in parte, ovvero se non si debba ritenere perfetta la sola realtà considerata nella sua completezza. Come una macchina o una costruzione geometrica, un mondo senza irregolarità, oltre che inconcepibile, è, se possibile, persino peggiore dell’ordine che risulta — a noi — dalla composizione di bene e di male. Una linea può piegarsi in avanti o indietro, salire o scendere, può avere punti di intersezione, svolte, interruzioni ed altre particolarità, senza che se ne comprenda il significato, specialmente se si considera un solo tratto di questa linea. Tuttavia è possibile indicare la sua equazione e costruzione, in cui un geometra troverebbe il fondamento e la concordanza di tutta questa apparente irregolarità. Così si devono anche giudicare le irregolarità dei mostri e delle altre così dette manchevolezze dell’universo. La lamentazione di Giobbe per un male eccessivo rispetto alla responsabilità umana non trova più posto nella visione dell’armonia prestabilita di Leibnitz. Man mano che la filosofia organizza in proprio il discorso su Dio, sull’uomo, sul mondo a partire da princìpi primi ritenuti assolutamente evidenti, lo spazio del linguaggio biblico e dell’esperienza religiosa che esso esprime viene sempre più eroso in favore della logica connessione di proposizioni assolutamente univoche su quelle medesime realtà. Nascono allora le grandi narrazioni moderne, il cui scopo è di procedere alla sistematizzazione delle antiche idee metafisiche e cristiane all’interno della nuova razionalità matematico-deduttiva. Poiché però, il punto di vista del pensiero viene identificato con l’assunzione di un principio la cui peculiarità è l’assenza di presupposti, il modello matematico che sorregge il nuovo ideale di sapere impedisce la coordinazione fra l’esperienza effettiva e la ragione che l’accerta. A premere verso il concetto di “religione naturale” contribuiscono motivazioni politiche e di costume: di fatto, la necessità di comporre i dissidi fra le varie religioni storiche attraverso l’elaborazione di un comune concetto di Dio capace garantirne la coesistenza sollecitando insieme uno spirito di tolleranza adeguato ai tempi moderni. Quello che fu inizialmente un progetto politico divenne poi fondato sul nuovo metodo razionale, per il quale non appariva necessario eliminare la religione storica rivelata, bensì questa veniva collocata in uno spazio ulteriore ed estraneo alla ragione, il cui accesso era garantito dalla fede, intesa come quella facoltà della coscienza radicalmente alternativa al sapere perché non dispone della medesima evidenza. Forse nell’intenzione di salvare la fede dall’aggressione del nuovo ideale scientifico, si fa strada l’idea di due ordini di conoscenza alternativi, cioè solamente accostati e privi di riferimento. In questo quadro, l’idea di Dio occupa lo spazio sempre più rarefatto di una trascendenza oltre il mondo, rispetto al quale opera alla stregua di una causa, sia pure perfetta. Come un orologiaio, Dio regola il mondo per il suo buon funzionamento: è il Deus ex machina. Allora l’idea di Dio è semplicemente funzionale all’esigenza di certezza con cui l’uomo organizza il sapere attorno e sé e al mondo.

Il progetto cartesiano (R. Descartes, 1596-1650) di un sapere autonomamente fondato, capace di una certezza assoluta, si rivela il motore del nuovo discorso su Dio, l’uomo e il mondo, elaborato dalla teodicea. L’alternativa posta tra ragione e fede — quest’ultima concepita come un ordine successivo ed ulteriore a quella — e la convinzione che non possa esservi una evidenza cui entrambe fanno riferimento, caratterizza tutto il dibattito moderno intorno alla questione di Dio. Più originariamente, la contrapposizione dei due ordini deriva dalla distinzione fra la soggettività in quanto facoltà e i suoi contenuti, ritenuti pur sempre incapaci di dire adeguatamente il senso della medesima soggettività. In altre parole, l’esperienza dell’uomo in quanto principio della sua stessa ragione, è possibile solo sulla percezione dell’insufficienza del mondo. In realtà, e più radicalmente, all’origine della separazione sta il progetto tecnico-scientifico di autorealizzazione dell’uomo in quanto liberazione da ogni condizionamento, pregiudizio, e mistificazione. Alla luce di questo progetto, il nuovo ideale del sapere si rivela funzionale alla prassi; il “fatto” a ciò che si deve e può fare sulla base delle conoscenze che il progresso rende via via accessibili. Il fattore decisivo del mutamento nella cultura, nella coscienza e nel sentire della nuova epoca si rivela dunque l’avvento e l’affermazione del sapere scientifico e della tecnica che ne è il prodotto. È precisamente a causa della capacità analitica della razionalità scientifica che si spezza l’unità del sapere e si dà luogo alla differenziazione delle sfere culturali che ne derivano. Ma il sapere scientifico non è che la manifestazione dell’emergere di un uomo nuovo, il cui ideale di libertà è l’assoluta autonomia della propria ragione, il cui potere conduce alla persuasione di potere e dovere mettere tutto in questione a partire da sé. Si capisce dunque come l’affermazione di una frattura rivoluzionaria col passato tradizionale sia cosa pacificamente condivisa. Tuttavia, poiché non si può sapere senza mettere tra parentesi la libertà del soggetto, il sapere che ne deriva è solamente oggettivo e non riguarda radicalmente la libertà di quel medesimo soggetto. Allora, la libertà si rivela ultimamente formale, quanto il sapere è strumentale. Di qui l’interesse per la questione della fede, che si gioca nel duplice registro della libertà e della storia come ciò che impone di unirle sfuggendo alla separazione indotta dal razionalismo e del fideismo. La separazione tra res cogitans e res extensa formulata da Cartesio approfondisce, per altro, la concezione dualista dell’uomo originariamente insita alla tradizione classica, la quale, da Protagora in poi, procede alla determinazione del principio che presiede all’unità del reale, superando l’interesse meramente ontologico nei confronti della natura. Ma la degenerazione formalistica che si determinò già in seno alla sofistica è testimonianza della fragilità speculativa contestuale alla nuova prospettiva. Il merito permanente della riflessione di Socrate consiste appunto nel determinare concettualmente l’unità dell’uomo in quanto ψυχη, vale a dire consapevolezza e operatività che costituisce l’individuo stesso. All’intuizione socratica Platone e Aristotele daranno compiuta sistemazione teorica. Il primo nella direzione del fondamento intelligibile e ontologico del sensibile; il secondo nel senso della formalità razionale della natura delle cose. Ad essi si connettono le tradizioni spirituale e metafisica della filosofia occidentale, rispetto alle quali il cristianesimo introdusse la prospettiva ulteriore della storicità radicale dell’esperienza umana orientata da un senso assoluto cui il singolo è personalmente libero di accedere. A fronte del razionalismo cartesiano la fisiologia dell’intelletto umano operata da Locke (1632-1704) rappresenta la sua versione speculare, condividendone il presupposto dualistico.

Solo in Kant viene indicato un senso radicale dell’antropologia assegnato alla sfera dei principi dell’agire: in luogo dell’interesse metafisico e teoretico, il problema dell’uomo verte piuttosto sul tema etico e pratico della libertà, che è, in Kant, il presupposto insieme radicale e indeducibile del compito, originario ed incompiuto ad un tempo, dell’autorealizzazione dell’uomo. In quanto libertà, l’uomo è indeducibile sia dall’idea di Dio, in quanto sproporzionato rispetto alla fallibilità del soggetto finito, sia dalla causalità naturale, incapace di rendere ragione della struttura della decisione etica. Perciò la figura della libertà umana costituisce insieme l’essere personale dell’uomo e il suo stesso enigma. Rispetto alla radicalità kantiana, il sistema idealistico e naturalistico rappresentano i due estremi in cui cade la dimenticanza della singolarità della libertà. Inquadrando geneticamente la coscienza essi assegnano alla libertà la necessità della struttura processuale rispettivamente dello Spirito assoluto e della Natura materiale. Tuttavia, al di là della contrapposizione, essi vengono a configurare la storicità quale dimensione costitutiva dell’essere umano, superando in tal modo la filosofia trascendentale per la quale essa connotava estrinsecamente il suo operare.
Nel sistema idealistico, il compito storico dell’uomo è di realizzare progressivamente la ragione morale nel mondo oggettivo; compito già da sempre garantito nel suo esito, in quanto esso non è semplicemente opera dell’uomo, bensì della ragione assoluta nell’uomo, la cui libertà significa l’identità con l’assoluto. La storia diviene il luogo della mediazione fra la libertà e il mondo in quanto essa è identicamente storia di Dio e dell’uomo, automanifestazione di Dio e autorealizzazione dell’uomo. E poiché la garanzia del compimento risiede nell’assolutezza della libertà, Hegel finisce per identificare il risultato col fondamento. Interpretando il processo in termini antropoteologici il sistema idealistico prepara il pensiero antropocentrico. In questo senso, il primato della prassi viene reinterpretato non più in termini di eticità, ma di prassi storico politica volta all’effettiva autorealizzazione dell’uomo. Così che il significato della prassi non sta nell’incondizionatezza del suo principio o dell’intenzione, ma nel suo risultato. Perciò la libertà non consiste tanto nel compito dell’uomo morale che nessuna esperienza può adeguare, bensì nella condizione del singolo restituito alla sua autonomia mediante l’eliminazione delle situazioni che la negano. Così che, se l’effettiva realizzazione dell’ideale pratico è rinviata al futuro, l’assenza di una determinazione positiva della libertà nasconde il pregiudizio che l’identifica con l’assoluta autodisposizione dell’uomo. In questo quadro, l’uomo appare come colui che, essendo già da sempre libero, allo stesso tempo nega e ricrea la propria libertà.

Nondimeno, l’esigenza di ricondurre la filosofia all’uomo concretamente esistente è vigorosamente affermata da Feuerbach (1804-1872) contro la riduzione formalistica della filosofia del primo Ottocento, volendo costituire una svolta significativa della tradizione speculativa nel progetto di una filosofia dell’avvenire che si qualifichi in radice come antropologia. La tradizione filosofica e teologica che si riassume nel sistema hegeliano ha fatto dell’essere soggettivo un’astrazione finendo per consolidare teoricamente l’alienazione religiosa dell’autocoscienza umana nell’ipostasi divina. In altri termini, la polemica antidogmatica che ispirava la tradizione settecentesca appariva ora omogenea a quello stesso dogmatismo responsabile della dissociazione dell’uomo dalla sua stessa assolutezza. Così che il compito della filosofia autentica è delineato: essa deve riportare alla luce, nell’uomo, la coscienza dell’infinità e dell’assolutezza che gli sono peculiari e che nella religione, come nel sistema, si manifestano come dissociate dall’uomo stesso. Respingendo l’enfasi teoretica, la filosofia dell’avvenire «fa dell’uomo l’oggetto unico, universale e supremo della filosofia». In quanto filosofia essenzialmente pratica, la nuova filosofia è «per l’uomo» quanto la religione e perciò «prende il posto della religione, ha in sé l’essenza della religione, è in verità essa stessa religione». E come questa essa ha un dio: l’uomo. Non l’uomo in sé, né l’uomo singolo, preso per sé, in quanto ente morale o pensante. Bensì in quanto comunità. L’assunto homo homini deus è il principio pratico che informa la filosofia dell’avvenire. In quanto radicato nella costituzione fisica dell’individuo stesso e strutturato nello sviluppo concreto della comunità umana, quello comunitario è l’ambito proprio dell’autorealizzazione dell’uomo. Tuttavia, la difficoltà ad articolare la realtà sensibile con la personalità sociale cosciente e la riduzione del destino del singolo individuo a quello della specie furono i limiti che sollecitarono la riflessione marxista ad operare un tentativo di superamento della teoria feuerbachiana dapprima attraverso l’elaborazione della nozione di prassi produttiva, poi, abbandonando il punto di vista antropologico a favore di una più coerente analisi scientifica, configurando l’essere umano come prodotto del lavoro sociale la cui misura è costituita dalla produzione materiale. Così che, l’enfasi accordata alla condizioni materiali della produzione finisce per sequestrare l’interesse antropologico per la realtà storico sociale. In questo modo, la somma di forze produttive, di capitali e di forme di relazioni sociali che l’uomo eredita appare a Marx (1818-1883) come la base reale di ciò che i filosofi si sono rappresentati come “sostanza” ed “essenza dell’uomo”.

Ma il punto di vista economico non giustifica l’uomo quale decisione individuale circa il senso dell’esistenza umana più di quanto non facesse la considerazione idealistica dell’uomo quale epifenomeno dello Spirito. Il merito permanente della riflessione kierkegaardiana sta appunto nel tentativo di superare la prospettiva idealista assumendo la filosofia nel senso della considerazione dell’esistenza del singolo in quanto decisione in cui l’uomo si espone alla possibilità di mancare la propria affermazione singolare. E ciò in tal misura da rendere l’uomo inevitabilmente preda dell’angoscia che investe ogni relazione possibile col mondo, configurando l’esperienza della responsabilità personale come una malattia mortale. La paradossalità dell’esperienza dell’angoscia che l’esercizio della libertà comporta risiede nel fatto che essa, mentre orienta alla distretta dell’esistenza fino al rifiuto estremo di ogni possibilità di salvezza, allo stesso tempo dispone — luteranamente — l’eventualità dell’affidamento assoluto a Dio. Ciò che in Dio rende possibile il rovesciamento dell’angoscia in certezza assoluta del riscatto è l’incolmabile differenza qualitativa tra l’Assoluto e il relativo quale si presenta nella vicenda assolutamente singolare del Cristo, Dio nel tempo e Uomo singolo che accoglie colui che è disposto a lasciarsi afferrare dall’Assoluto in termini radicalmente personali. Perciò, la filosofia di Kierkegaard (1813-1855) non è affatto una filosofia del paradosso. Tra un termine e l’altro della dialettica, infatti, è posto uno iato incolmabile da parte del pensiero, un abisso che la ragione non può superare, bensì è offerto uno spazio al rischio della libertà e della decisione della fede. Il paradosso è dunque interamente iscritto nella decisione della fede e nell’atto della libertà, rispetto ai quali ogni mediazione filosofica sarebbe un’indebita degradazione e una surrettizia reintroduzione del sistema. Così che se la filosofia pensa il paradosso questo non è più tale. Tra filosofia e paradosso, dunque, si frappone l’esistente, come ciò che è irriducibile, in quanto posto dall’atto stesso della libertà, all’astrazione di cui il pensiero è capace. Appunto questa è la contraddizione che, interpretata dalla fede nell’evidenza di cui essa sola dispone, il «pensatore soggettivo» deve pensare. La nozione di esistenza soggiace al dibattito filosofico e teologico del primo Novecento come il luogo della riflessione intorno all’essere dell’uomo. Tuttavia, fu la medesima nozione, a motivo della sua ambiguità, a sequestrare l’intero dibattito sovraesponendo il proprio assunto sull’intera questione. Perciò il dibattito attorno alla filosofia dell’esistenza coinvolse l’ontologia come l’etica e la religione, imponendo la riflessione sul senso complessivo dell’impresa antropocentrica della modernità. In questo modo, se il dibattito contemporaneo è interamente caratterizzato dalla problematica ereditata dalla tradizione ottocentesca, esso appare insieme dominato dalla determinazione a riprenderne gli aspetti maggiormente aporetici, configurando una filosofia della crisi che ripercorre il proprio destino in cerca di un punto di vista più saldo. La svolta antropologica della modernità, nei suoi diversi significati, a motivo della dissociazione irrisolta che il progetto moderno essenzialmente comporta, lascia immutata la struttura formale del concetto di libertà. Perciò, qualunque ne sia l’orientamento, il dibattito in corso si può riassumere come la ricerca di un pensiero più originario.

Ciò vale anzitutto per quella corrente di pensiero riconducibile al positivismo (ci riferiamo all’esperienza del Circolo di Vienna come all’analitica del linguaggio che s’ispira all’ultimo Wittgenstein) che, proseguendo la critica illuministica all’ideologia ispirata alla concezione tecnica dell’esperienza linguistica e riflessiva, finisce per risolvere pragmaticamente il problema del senso. Per essa il criterio del sapere critico non può essere che la verifica empirica escludendo simultaneamente la significatività dell’esperienza non riconducibile a quel medesimo principio. In questa prospettiva sono da ricondurre anche le ultime espressioni del pensiero positivista per il quale l’esperienza non verificabile appartiene interamente all’area della decisione pratica per principio sottratta all’analisi scientifica. Ciò vale anzitutto per il problema di Dio che, in quanto comprensibile solo a partire dalla questione del senso della totalità e delle condizioni universali della sua verità, è sottratto per principio a qualsiasi verifica empirica. Tuttavia, il pregiudizio antispeculativo che determina il pensiero positivista evita di considerare le motivazioni della crisi del sistema cui intende reagire, vale a dire la frattura posta fra il sapere metafisico e l’esperienza storica del sapere tecnico scientifico. L’alternativa che tale crisi impone, a fronte dell’esito dogmatico e idealista della tradizione moderna, non consiste nella deriva empirista che radicalizza la scientificità nell’affermazione di un’evidenza univoca e insieme risolve il problema del senso nell’atto della decisione pratica, bensì nella discussione della medesima evidenza che ha prodotto quella crisi in quanto si è mostrata incapace di articolare i diversi accessi dell’uomo alla verità.
In secondo luogo, il pensiero neomarxista di E. Bloch (1885-1977) mirando ad evitare sia l’esito materialista proprio della riflessione di Marx, sia la ricaduta nella coscienza falsa connessa al sistema idealistico, elabora la tesi della coscienza utopica proiettata verso un futuro radicalmente nuovo, il cui motore è l’essere in quanto possibile di cui la speranza costituisce l’esperienza anticipatrice. Non intendendo rinviare nell’al di là o nell’inutilità di un’astratta utopia il riscatto dell’uomo, bensì esigendolo su questa terra in un futuro in cui si possa realizzare l’unità di storia e natura, cioè quella totalità intesa come piena realizzazione dell’umano che il presente non può dare a causa della separazione in cui si tengono antropologia e cosmologia, Bloch indica la necessità di pensare la materia come possibilità. Per questo aspetto, però, è la teoria hegeliana dell’Aufhebung, nella sua incessante tensione verso il futuro, a influire su Bloch; ed insieme a questa, per la quale la dialettica non è definibile senza il riconoscimento della totalità, la tensione apocalittica propria del testo biblico fornisce il quadro concettuale entro il quale si muove la riflessione di Bloch. Il significato fondamentale dell’Essere come possibile è il principio per cui esso fornisce un’incessante anticipazione sul presente che si esprime nella coscienza utopica alimentata dalla speranza. Il principio speranza, l’uomo verso cui l’uomo tende, viene a noi incontro dal nostro passato, vale a dire dalla consapevolezza che il passato irredento contenga un’eccedenza rispetto al presente che costituisce la sua eredità ed insieme pone le condizioni per lo sviluppo futuro. In altre parole, l’identità dell’uomo si realizza solo nel trascendimento che egli fa del mondo e ciò è possibile perché in esso è immanente il desiderio del novum, «cioè la reale possibilità del non ancora conscio, del non ancora avvenuto, con l’accento posto sul novum bonum (sul regno della libertà) se viene attivata la tendenza che ad esso porta». La dimensione ontologica del principio speranza si ricava dunque dall’incompiutezza dell’Essere che si manifesta ad ogni livello della realtà e che garantisce la mediazione cercata fra l’elemento strutturale e il desiderio, evitando di ricondurre le metafore anticipatrici di cui il secondo è capace a semplici elementi sovrastrutturali. D’altra parte, se il superamento del materialismo meccanicistico è implicito nella considerazione dell’Essere come δυναμει ον, la sua possibilità si realizza soltanto grazie all’uomo. Il possibile, perciò, è tale soltanto in quanto non compare semplicemente nella forma dell’ammissibile, o del congetturabile, o del conforme alla natura delle cose, bensì in quanto costituisce nel reale una determinatezza gravida di futuro. Tale è appunto, per Bloch, la coscienza religiosa che, nella sua forma originariamente utopica evita sia la sua deriva proiettiva, sia la sua forma alienante, e tuttavia nega insieme qualsiasi trascendenza teologica che sopprima l’irriducibile processualità della storia, in sé necessariamente ambigua e indecisa. Che altro sarebbe, in questa prospettiva, l’affermazione di una Potenza sottratta all’ambiguità della storia, se non un’indebita ipostatizzazione, nel presente, del desiderio umano? Ci siamo soffermati nell’esposizione delle tesi della scuola neomarxista a motivo del suo influsso sulla teologia del Novecento. Non c’è dubbio, comunque, che la tensione utopica verso un futuro storico costituisca uno dei tratti peculiari della coscienza contemporanea. Ma in tale soluzione, Bloch nutre solo speranza, non fiducia certa. Il divenire, infatti, è storia; e la storia dell’uomo è anzitutto dissonanza, non accordo comunque prevalente. Perciò la dialettica deve essere «negativa», e la società deve essere comunque contestata. Tuttavia, posto l’Essere nel processo ed affermata insieme la possibilità di un suo esito assoluto, s’afferma il paradosso per cui il processo è il fondamento del suo opposto. La cui contraddizione si risolve apparentemente nel procedimento fantastico e aproblematico, prodotto dal pensiero separante, che mette conto di sostituire la differenza che fonda l’unità del processo con una proiezione storica assoluta e perciò dissociata dall’esistenza che ne è all’origine. Di conseguenza, non solo il futuro appare, in questa prospettiva, incerto, bensì impossibile come futuro assoluto: perché questo implica un significato dell’Essere sottratto alla processualità. Ma ciò supera infinitamente l’evidenza del dato posto dal dinamismo umano verso il futuro assoluto, che è il motivo della riflessione blochiana. Tuttavia, contro la premessa posta dall’esperienza ineludibile della speranza che contesta ogni sua omologazione, Bloch finisce per risolvere l’ambiguità della storia affermando l’essere processuale quale fondamento della storia stessa. Diversamente, l’esperienza originaria del trascendere dell’uomo non può essere chiarita nel suo significato ontologico che se è pensata la differenza che è la condizione della possibilità stessa del trascendere, determinando poi positivamente il senso dell’essere che questa differenza comporta e che iscrive la possibilità di pensare la stessa trascendenza teologica. A ciò si connette la problematica del rapporto fra la fede e l’immaginazione storica (ideologica e utopica). Al di fuori di tale precisazione, ogni affermazione assoluta ricade nel dogmatismo e non può legittimarsi a fronte del «tribunale della ragione», essendo motivata dall’incapacità del pensiero dualista a concepire la qualità del rapporto dell’assoluto col processo altro che in termini di opposizione. Non rimane che ammettere che la possibilità di distinguere l’affermazione di fede dall’utopia risieda nella sua connessione con la questione della dimensione veritativa del conoscere, in quanto essa gode di un suo statuto peculiare.

Il dibattito esposto mostra la necessità di ricondurre la riflessione alla questione permanente della filosofia; vale a dire porre il problema della verità nella sua universalità superando le visioni parziali connesse alla riduzione del problema al suo criterio scientifico o alla prassi intesa come autocostruzione dell’uomo. Significativamente, la ripresa contemporanea della questione prende avvio dalla riconsiderazione dell’evidenza posta a fondamento della coscienza moderna da Cartesio. Nella «ritorno alle cose stesse», E. Husserl (1859-1938) intravede la necessità di una genealogia della coscienza posta nell’atto conoscitivo stesso, piuttosto che dalla regressione a una struttura inconscia. In questo quadro, la coscienza si mostra come la correlazione intenzionale tra due poli, la soggettività e la soggettività, indeducibili l’uno dall’altro. Così che se da un lato l’oggettività appare come un dato irriducibile al progetto di cui la coscienza è capace, dall’altro, ne costituisce essenzialmente il correlato. Ciò significa per Husserl che «l’evidenza non è altro che l’Erlebnis della verità». La fenomenologia dell’intenzionalità, oltre a mostrare la complessità della relazione tra soggettività e oggettività, impedisce di concepire l’evidenza propria dell’intuizione secondo il modello cartesiano dell’univocità, giacché la coscienza nei suoi diversi comportamenti, dipende da un vissuto che operando implicitamente non può essere adeguatamente riflesso, bensì rimanda ad un orizzonte di senso che è sempre ulteriore rispetto a ciò che è esplicitamente inteso. Allora, se da un lato l’analisi intenzionale rifà la storia della conoscenza, dall’altro rende esplicite le potenzialità del dato. Questo «portare alla luce» è una costituzione nel senso proprio della rivelazione del valore che già riluce nell’oggetto. Costituire non è dunque un creare, bensì un esplicitare un orizzonte di significati, un arricchire di senso, un soddisfare l’intenzione dell’orizzonte che tuttavia non rende mai l’oggetto adeguatamente conosciuto nella sua forma ideale. In quanto l’oggetto è colto in un orizzonte di possibilità, il soggetto è portato a tenere presente la coimplicazione di orizzonti ulteriori che rimandano infine ad un orizzonte universale già dato con certezza prima di ogni singolarità: il mondo. Così che ogni esperienza possibile, sia scientifica che prescientifica, riguarda sempre qualcosa che è nel mondo, posta in esso di fronte a me, come ciò che è alla mano comunque. Perciò il mondo non è la somma degli oggetti, bensì il principio di unità di tutto ciò che vi è incluso. In tal modo, il mondo come orizzonte è la possibilità stessa dell’esperienza dell’io che, in quanto tale, è già da sempre coimplicato nel mondo come unico orizzonte possibile del senso. Perciò l’esperienza conoscitiva non consiste né nel rispecchiamento della cosa che presume di poter cogliere il mondo senza l’essenziale implicazione dell’io che fa esperienza, né nella coerenza logica del giudizio che intende idealisticamente un’immediata immanenza del mondo all’io, né nello stato psicologico del soggetto che costituisce un semplice fraintendimento dell’esperienza conoscitiva stessa, bensì nello svelamento originario all’origine della relazione tra soggettività e oggettività e della loro reciproca trascendenza. In questo quadro, il compito della filosofia è di porsi l’obbiettivo di uscire dall’atteggiamento naturale, quale si trova nelle scienze europee, per il quale la connessione col mondo è considerata come ovvia nell’ambito di un’affermazione dogmatica del metodo. Si tratta dunque di sfuggire alla logica del sapere pratico che interpreta il conoscere esclusivamente in funzione dell’agire, per accedere ad una considerazione filosofica del conoscere come cogliere la totalità del mondo. A fronte di tale esperienza tecnica del mondo come presenza di ciò che è manipolabile, la filosofia costituisce un argine e, forse, un alleato indispensabile per l’uomo come per il religioso che intendano ritrovare il «mondo della vita» oltre l’oblio.

Si deve ad M. Heidegger (1889-1976) l’interpretazione più radicale dell’intuizione husserliana. L’esperienza originaria dell’uomo non consiste tanto nell’intuizione dell’oggetto da parte della soggettività, quanto nella comprensione dell’esistenza intesa come l’essere preliminarmente orientato a un orizzonte implicito in cui l’uomo conosce e utilizza le cose. Perciò, l’essere nel mondo è la comprensione fondamentale che l’uomo ha di sé in quanto essere pregiudizialmente aperto alla totalità e perciò trascendente ogni situazione data e insieme situato in mezzo agli enti finiti. In termini ontologici (posti dalla riflessione svolta a partire dalla Lettera sull’umanismo) ciò significa che l’uomo è il luogo di cui l’essere dispone manifestando la sua verità nell’accadere dell’ente da cui pure si differenzia. Vale a dire che l’essenza propria dell’uomo è il luogo della manifestazione ambigua dell’Essere. Ambiguità che si riflette sulla natura stessa del destino dell’uomo, sempre esposto alla possibilità di perdersi come di vivere autenticamente. Ma la difficoltà fondamentale, percepita dallo stesso Heidegger, consiste nel ricondurre l’analitica dell’esistenza alla fondazione del senso dell’Essere, una volta che si sia dimostrata l’impossibilità di dedurre questo da quella. Alla luce dell’analitica esistenziale, appare che, identificando l’essere con la presenza, la tradizione filosofica occidentale esercita un condizionamento implicito sul pensiero dell’essere che costituisce l’impedimento radicale a formulare una teoria ontologica adeguata all’esperienza effettiva dell’uomo. Ritenuto l’essere nella sua evidenza, infatti, la metafisica della presenza evita di interrogarsi sull’essere in quanto tale, così che la storia della metafisica si rivela come la storia dell’oblio dell’Essere. Il senso della këre sta tutto in questa reinterpretazione della metafisica come oblio dell’Essere, allo scopo di individuarne le configurazioni epocali: la metafisica antica come onto-teologia e la metafisica moderna come antropo-teologia. Al significato dell’essere come manifestazione reso possibile dal pensiero della differenza, corrisponde un’antropologia che concepisce l’uomo come il luogo di cui l’essere stesso dispone per manifestare la sua verità nell’accadere dell’ente, così che l’essere è pensato come destinazione dell’uomo, appello. In quanto fondamento indisponibile della singolarità dell’uomo, l’essere pone la libertà come trascendenza nei confronti di ogni dato disponibile in direzione del senso totalizzante, che solo, corrispondendo simultaneamente all’apertura dell’essere e dell’uomo, ne costituisce la possibile salvezza, il cui luogo storico è il linguaggio poetico, in quanto esso è capace di mediare storicamente, nella forma di un’anticipazione, la manifestazione dell’essere destinata all’uomo. Giacché la verità dell’essere è costituita sempre nella forma della mediazione simbolica della sua manifestazione, il sapere che le corrisponde non è un sistema, bensì l’elaborazione delle condizioni ontologiche dell’esperienza, e ne preserva così l’irriducibilità, sia alla cosificazione sia all’ipostatizzazione operate dalla riduzione antropologica della trascendenza caratteristiche del soggettivismo moderno. In questo modo, Heidegger ritiene che il pensiero della differenza si capace di esplicitare le diverse modalità della trascendenza evitando di dedurla dal punto di vista antropologico o di affermarla fideisticamente.

La religione della libertà

Il problema della libertà è sì il problema centrale, direi addirittura peculiare della filosofia moderna, e tuttavia essa, a partire da Cartesio, non ha fatto che ricondurre la libertà ai suoi aspetti formali, per lo più razionali. D’altra parte, lo stesso Hegel, personaggio nel quale tutta la storia della filosofia occidentale si raccoglie e giunge al suo compimento, senz’altro metteva al centro della sua filosofia la libertà, concependola però come libera necessitas.
Se dunque la filosofia occidentale, in quanto filosofia della libertà, si dissolve con Hegel, si pone il problema di un nuovo principio e, dunque, si può cogliere l’occasione per elaborare una nuova filosofia della libertà, vuoi rifacendosi alla filosofia post-hegeliana, come pure si può procedere a ritroso nel tempo riconducendo l’interrogazione alla tradizione immediatamente precedente la riflessione hegeliana per cercarvi una critica ante litteram di quella. D’altra parte, il dibattito teologico contemporaneo mostra che le decisione teoriche fondamentali entro cui esso opera, sono state poste dalla riflessione dell’idealismo tedesco, il cui apporto appare a tal punto radicale da costituire, a tutt’oggi, il punto di riferimento obbligato. Questa situazione ermeneutica è ben espressa nella conclusione delle ricerche ermeneutiche di P. Ricoeur in cui formula la proposta di mediare le posizioni rispettive di Kant e di Hegel nel senso di una lettura post-hegeliana di Kant capace di iscrivere nella problematica del limite offerta dalla riflessione kantiana l’istanza hegeliana del significato positivo della rappresentazione. Ciò permetterebbe di esplicitare la relazione tra discorso figurativo e concettuale nel quadro di un uso del pensiero che mantenga desta la tensione tra figura e significato. In effetti, a giudizio di Ricoeur, se a una prima lettura, peraltro legittima, la dialettica della ragion pura nega alla teologia speculativa ogni uso conoscitivo, rigettando ogni prova ontologica del trascendente, essa insinua però una differenza fra pensare e conoscere nel cui spazio è inscritto il luogo del discorso simbolico, concepito come presentazione indiretta dell’incondizionato. La distruzione della teologia speculativa in quanto scienza oggettiva operata dalla dialettica implica, infatti, che la conoscenza oggettiva stessa non sia assoluta. La distanza fra l’intelletto inteso come funzione di un sapere del condizionato e la Ragione intesa come sapere dell’incalcolabile è istituita dal concetto di limite. Esso impedisce sia di considerare la metafisica come sapere oggettivo sia di ipostatizzare la conoscenza oggettiva come sapere assoluto. In altre parole, se il limite indica che la nostra conoscenza è limitata, esso indica insieme, che la ricerca dell’incondizionato pone limiti alla pretesa della stessa conoscenza oggettiva di divenire assoluta. È dunque una questione di differenziazione, non di divieto. Se ciò finisce per significare che la conoscenza metafisica è il campo di concetti vuoti è perché manca a Kant l’idea di un linguaggio che non sia empirico.
Posta in questo modo una reinterpretazione della prima critica è possibile procedere alla riconsiderazione dei postulati della seconda che, superando la separazione fra ragione teorica e pratica liberi la morale dalla riduzione a teoria del dovere restituendo dignità alla libertà intesa quale fondamento del pensiero non oggettivante. Così che l’etica diviene il luogo delle mediazioni attraverso le quali l’uomo realizza il proprio desiderio di essere. In questo modo, la questione della libertà istituita dal pensiero non trova il suo luogo proprio se non nel linguaggio in cui la libertà stessa si media. Ciò significa, infine, poter isolare lo spazio della religione, come questione relativa alla possibilità del compimento dell’oggetto della volontà. Solo a questo livello dell’interrogazione è possibile giustificare l’autonomia del linguaggio della religione come linguaggio dell’immaginazione della speranza. Esso non è né oltre né dentro i limiti della ragione, giacché nulla aggiunge alla conoscenza oggettiva, né è semplicemente una rappresentazione allegorica della coscienza etica, bensì è il luogo in cui essa è posta nella sua assolutezza ed insieme preservata dall’alienazione. Quanto a Kant, la mia è una passione di lunga data: risale a quando studiavo filosofia sui banchi liceali. Allora trovai modo di apprezzarne il potere demistificante. Oggi ne apprezzo la formidabile complessità e differenziazione. Recentemente ha ridestato il mio interesse, tra l’altro, quel passo, peraltro assai trascurato, della Critica della ragion pura in cui parla del baratro della ragione per indicare appunto la necessità incondizionata, quel sostegno di tutte le cose che, sia pure indispensabile, ci appare anche terribile proprio in ragione della sua autosufficienza. Dinanzi a ciò la ragione è colta da stupore e vertigine, viene attratta e, ridotta all’impotenza, si discosta. Ciò di fronte a cui la ragione sedotta si ritrae è l’Essere che precede il pensiero e che, in quanto è senza fondamento, ha il concetto come conseguenza. Nella critica si tratta, dunque, di una riflessione sulla libertà svolta a partire dal dilemma che la necessità rappresenta per essa. È appunto tale reazione mista verso l’abisso del pensiero ciò che mi ha spinto ad indagare sul testo della Religione. In esso si trova più che la riflessione sulla possibilità della libertà assoluta. Si tratta infatti di una nuova angolatura in cui Kant guarda alla religione: essa, oltre a rispondere alla necessità del pensiero è, di fatto, qualcosa di ulteriore che trova una sua peculiare rappresentazione nel linguaggio della fede. In questo modo Kant abbozza una fenomenologia del male e non un’affermazione del baratro che separa la ragione dall’Essere. Essa è l’esercizio di un’ermeneutica filosofica che pone le regole di un’indagine trascendentale circa l’immaginazione della speranza. In quest’opera il limite è sempre percorso, ma non superato, quasi che Kant ci inviti a sostare sulla linea per poter affermare appieno la libertà che da tale comportamento si dispiega. L’esito del tentativo kantiano consiste però nel ricondurre la questione religiosa all’atto supremo della libertà che, in quanto tale, è identicamente umana e divina e che, tuttavia, appare differente se la si considera nella sua attuazione: assolutamente buona in Dio essa, nell’uomo, non può che essere in conflitto con la sua destinazione malvagia. Ma il modello a partire dal quale è possibile questo discernimento è l’attuazione assoluta della volontà divina: il Salvatore assoluto. In ciò il guadagno dell’opera matura.
La teoria kantiana è alla radice una teoria ermeneutica: vale a dire si pone come risposta al problema del rapporto fra sapere e libertà. Se l’originario è la libertà, il sapere che le corrisponde non può essere quello che la tradizione occidentale ha perseguito nella storia della filosofia sotto il nome di metafisica giacché questa disconosce il radicamento ermeneutico del sapere. Il sapere è già sempre interpretazione perché esso suppone come propria origine l’attuazione della libertà posta nell’alternativa fra l’essere e la notte, fra coscienza di sé e indifferenza, fra salvezza e perdizione. Perciò la forma originaria della libertà è il consenso alla trascendenza della verità che l’uomo stesso non pone, ma deve accogliere. Poiché la verità non si dà se non nell’attuazione della libertà come assenso a ciò che la precede, la mediazione della libertà non pregiudica, bensì conferma la sua trascendenza, dando luogo a quella peculiare interpretazione ontologica che è la metafisica intesa ora come coincidenza fra autoreferenzialità della coscienza e relazione ontologica.

Il modello indicato corrisponde al concetto di fede teologica per la quale il senso della verità non può essere saputo se non nel modo della libera corrispondenza alla sua indeducibile manifestazione. Ciò significa che la fede può e deve essere giustificata nel quadro della riflessione trascendentale. Tale appunto è lo statuto della teologia, la quale argomenta la fede a partire dall’evento che la realizza e che si pone come la condizione universale del sapere che le corrisponde. Ora, però, poiché l’intrascendibilità della coscienza e la sua finitezza sono poste dallo schematismo in cui l’immagine della verità mantiene insieme la trascendenza dell’essere e la sua determinazione, l’essere stesso risulta sequestrato nell’orizzonte della soggettività la quale esclude ogni alterità e la differenza ontologica risulta essere la presupposizione che fonda estrinsecamente il suo dinamismo. La concezione dell’essere come origine del senso di cui la coscienza è capace risulta in Kant da questo stesso dinamismo e non dall’essere inteso come principio della propria manifestazione. In questo senso, la ragione ultima dello schematismo non è la manifestazione della verità bensì la natura della soggettività, così che la questione ontologica è ricondotta integralmente nell’alveo dell’antro–pologia e per questa strada essa finisce per risolvere l’originario nell’eccedenza della verità rispetto a ogni sapere, correndo il duplice rischio di omologare la rivelazione all’espressione, quando si voglia sottolinearne la positività; o di ridurla alla questione della riserva di senso quando si voglia preservare l’irriducibilità alle sue condizioni. Ora, la questione che la teologia pone al pensiero ermeneutico solleva il problema di una corretta rigorizzazione dei suoi presupposti ontologici. Essa esige che la differenza fra senso e verità, tra figura e significato, sia istituita a partire dalla attuazione indeducibile della verità stessa, e poiché l’essere non è accessibile come un oggetto bensì come la condizione della possibilità dell’esperienza del limite che «tormenta» la ragione, l’origine che questa deve legittimare nella sua indeducibilità consiste in un circolo per cui non vi è coscienza dell’ente determinato se non nella presupposizione della relazione all’essere assoluto e, d’altra parte, non si dà relazione alla trascendenza se non a partire dalle determinazioni dell’ente stesso. Così che se il sapere ontologico è insieme assoluto e negativo, esso rinvia positivamente ad una ripresa ontologica dell’esperienza che non può essere né la vuota postulazione né l’identificazione dommatica dell’oggetto con l’essere. È proprio la limitatezza di Kant che suggerisce di procedere oltre. Indubbiamente in Hegel ha luogo la massima considerazione della pretesa speculativa che la religione eleva. Oltre all’identificazione della religione e della filosofia nel medesimo discorso dello Spirito, la riflessione hegeliana mette conto di delineare i momenti attraverso cui le rappresentazioni religiose tendono verso il loro compimento speculativo. L’intero spazio della religione è sequestrato dall’idea che la rappresentazione tenda al proprio superamento verso il concetto dando luogo ad un processo che è il medesimo della coscienza che perviene a se stessa. Essa è dunque il luogo in cui la manifestazione dello Spirito coincide con la morte della sua rappresentazione, e perciò la sua figura è totalmente assorbita nel concetto. La tesi è talmente nota da non consentire un’interpretazione innovativa. Tuttavia, a mio parere, può essere fecondo un confronto con i testi dell’opera giovanile in cui appare con maggiore efficacia ciò che ha spinto Hegel a formulare la sua tesi: vale a dire la pressione della situazione epocale della modernità come luogo del sentimento della morte di Dio. Questa posizione, se da una parte illumina la concezione politica che Hegel ha della metafisica, introduce alla riflessione nietzscheana in cui è immersa la contemporaneità. Ora, è ben vero che l’istanza della verità esige l’elaborazione di un sapere assoluto la cui evidenza è incontrovertibile e comporta un carattere di necessità per il quale il sapere della fede, in quanto radicalmente ermeneutico, appare problematico. Ma l’alternativa posta dall’Illuminismo tra fede e ragione comporta la riduzione della questione del fondamento reale del sapere alle condizioni critiche della sua possibilità senza che le ragioni del rimando all’esperienza risultino dalla questione del sapere ontologico stesso. Il circolo ermeneutico di cui il sapere fondativo assegna la struttura rende ragione della questione posta. Tuttavia, poiché l’affermazione della fede cristiana di una visione positiva dell’Assoluto nell’evento storico di Gesù di Nazareth appare risolvere la differenza tra il fondamento reale e le sue condizioni d’accesso, essa costituisce un problema ulteriore e peculiare posto al sapere ontologico. Ora, è proprio del linguaggio metaforico porre un’intenzionalità in cui ontologico e categoriale si coappartengono, consentendo di accedere ad una conoscenza positiva dell’essere attraverso l’ente. Perciò il ricorso alla fenomenologia della metafora pertiene alla teoria del fondamento come il luogo del suo approfondimento. e non come momento non ulteriormente giustificabile della teoria ontologica. O l’indeducibiltà del sapere della fede qualifica intrinsecamente lo stesso discorso ontologico o l’estraneità tra le due questioni, ermeneutica e fondativa, non viene risolta ma confermata a livello concettuale. Se il sapere ontologico ha carattere negativo ciò non significa semplicemente che è «indeterminato», bensì che l’assolutezza del fondamento non è posta dal pensiero teorico né dal contenuto “oggettivo” dell’intenzionalità, bensì nella differenza posta come forma e condizione dell’attuazione della soggettività. In questo senso rigorosamente critico-riflessivo si deve intendere la differenza che nessuna risoluzione alla sua coscienza teorica può adeguare mettendo tra parentesi la sua stesa attuazione. La questione della libertà non succede all’indagine critica ma la fonda; non è l’applicazione di quella, bensì la sua stessa istituzione. Perciò la teoria del fondamento non è raggiunta se non si mostra l’originaria corrispondenza tra la differenza che qualifica il correlato ontologico dell’intenzionalità e la forma peculiare della trascendenza che è la condizione di possibilità dell’autoattuazione del soggetto. Corrispondenza che non è posta dalla scelta anticipatrice — che, subordinando la fondazione della verità alla pretesa ermeneutica pregiudicherebbe irrimediabilmente la stessa fondazione teorica — bensì dal fondamento stesso per il quale la ragione della necessità dell’anticipazione del senso della verità coincide con il fondamento della sua assolutezza. In questo senso rigoroso si deve parlare di «appresentazione» e non di «rappresentazione» dell’essere, in modo tale che l’indisponibilità della verità dell’essere appaia come la ragione decisiva della radicazione ermeneutica del senso. Essa, nell’interpretazione, identifica il luogo in cui appare la manifestazione della verità che lo trascende. La dottrina della fenomenologia del linguaggio metaforico giustifica la differenza tra sapere concettuale e simbolico evitando l’esito riduttivo perseguito da Hegel che inscrive la prospettiva ontologico-metafisica nel progetto di superare lo statuto simbolico del sapere in direzione di una eidetica del sapere. La teoria esposta legittima il sapere che corrisponde al senso ultimo della decisione in cui esso stesso è posto sul fondamento indisponibile della manifestazione della verità.

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