La condizione plurale

Scritto da F. Bertoglio

Il 17 Gen 2013

La condizione plurale

La questione della religione è cosa che implica una presa di posizione complessa circa le possibilità della cultura e della civiltà insieme. Ma, appunto, la percezione che esse hanno di sé e della religione è profondamente mutata nel tempo. Che la religione cristiana sia la religione è cosa che oggi nessuno più proverebbe a professare, sebbene sia solo in tempi relativamente recenti e soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, che si è fatta strada nella coscienza ecclesiastica l’idea del pluralismo religioso. Alla pacifica convinzione delle lunghe generazioni cristiane circa l’identità della religione col cristianesimo, l’intensificarsi della comunicazione a livello planetario e i movimenti migratori che caratterizzano la nostra epoca, hanno sostituito il pluralismo religioso come un elemento costitutivo dell’esperienza quotidiana. Una cosa, infatti, è sapere che esistono altre religioni e culture, come è accaduto lungo i secoli della storia cristiana, altra è sperimentarlo quotidianamente. Sotto questo profilo, si annuncia un altro elemento tipico della nostra condizione: la cultura europea sta vivendo un momento di crisi generalizzata che si segnala anzitutto per il suo carattere fortemente ambivalente. Da una parte, essa ha maturato la consapevolezza dell’univocità dello sviluppo moderno nel senso della pura razionalità scientifica e tecnologica; dall’altra, se la modernità appare, alla luce della crisi attuale, come un radicale fallimento rispetto al quale prendere le distanze, tuttavia, l’incedere verso un’epoca ormai postmoderna risulta forse più problematico e complesso di quanto non si sappia ammettere e comprendere. Comunque si voglia intendere la relazione tra moderno e postmoderno, sia nel senso di una ripresentazione dell’ideale di assoluta evidenza che ha caratterizzato la prima rivoluzione moderna, sia nel senso di una prospettiva intesa alla critica radicale della modernità, sia nel senso di una nuova elaborazione della sua problematica, è pacifica la convinzione che la cultura peculiare dell’Europa sia entrata in una crisi decisiva. Crisi che si trascina da oltre un secolo e mezzo senza trovare una risposta convincente e un assetto civile e culturale condiviso che consenta il superamento e la fine di un’epoca. Crisi che si coagula intorno a rischi di ogni genere: ecologici innanzitutto. Questa è l’epoca dello scioglimento dei ghiacciai e della sete, delle grandiose eruzioni vulcaniche che eruttano fuor di sé nuove Pompei su poveri paesi adagiati ai loro piedi, dei terremoti di altissima magnitudine e dei conseguenti maremoti che spazzano case temerariamente costruite sulla rena del mare. Ad alcuni sembra che gli dèi si siano ritirati al di là delle atmosfere che circondano il pianeta, in lontane galassie oltre lo spazio e oltre il tempo. Con maggior sincerità, occorrerebbe ammettere che il senno si sia ritirato dall’anima di un uomo sempre più ignaro dei propri limiti e confini e che perciò coltiva verso il mondo, se stesso e i propri simili una titanica e malcelata indifferenza. Per quanto possa parere un paradosso, la specie umana soffre quanto mai di solitudine in un mondo sempre più affollato. Senza realistiche speranze nel futuro, autenticamente privi di memoria del passato, i contemporanei vivono schiacciati su un presente che somiglia sempre più a una zattera in mezzo a un mare in tempesta, sulla quale non può non vigere la legge del più forte. Eppure, quest’epoca che vede paurosamente oscillare tutte le realtà consolidate ha sviluppato anche energie positive: all’inventiva e alla creatività straordinarie, fanno corpo un accrescimento di ricchezza senza precedenti, un inedito desiderio di autoaffermazione della libertà e di diritti che la tutelino. La richiesta sempre più ampia di pane e libertà appare come un’onda che travolge tirannie corrotte, tradizioni mummificate, reclama eguaglianza mentre afferma se stessa, esondando verso i territori di antica ricchezza. È un fenomeno antico di oltre due secoli, che ora si allarga, globalizzandosi. Ma la globalizzazione e la diffusione delle tecnologie hanno inoculato nel sociale la legge fisica dei vasi comunicanti: l’immigrazione dalle terre povere a quelle ricche è uno “tsunami” sociale. Pensare di bloccarlo è pura illusione; occorre governarlo commisurandolo al possibile, diluendolo nel tempo ma intanto preparandosi a gestirlo. Così, la crisi geologica si rivela crisi di sistema, vale a dire “umana”. Ed è un bene che l’uno e l’altro – uomo e mondo – si ritrovino uniti, seppur nella stessa barca in tempesta. Ci si sarebbe scoperti uniti assai prima, se l’uno non avesse avuto l’altro in tanta uggia. Così va’ il mondo: ciò che si caccia dalla porta fra tante contumelie, rientra poi dalla finestra, finché non si sia vista tutta la realtà che pure si è vissuta. In ogni caso, L’Europa – un tempo il Primo Mondo – si scopre sempre più realtà “locale”, marginalizzata, in un mondo globalmente interconnesso. A tal punto i suoi confini geografici di un tempo si sono fatti labili, che essa, semplicemente, “non ha più limite alcuno”, rischiando di perdere con ciò, anche se stessa. E tuttavia, in questo suo perdere se stessa noi intravvediamo un’occasione. Questa sì speriamo non sia persa, gettando il bambino con l’acqua sporca per timor di sé.

Le difficoltà in cui versano l’attuale cultura e la civiltà tutta – europea e globale – costituiscono, insieme, utili sollecitazioni al messaggio cristiano, ma anche insormontabili difficoltà erette contro la sua stessa comprensione. Non c’è dubbio, infatti, che la pluralità di etnie, di culture e costumi comporta diversificazione di giudizi, comportamenti, atteggiamenti, scelte e decisioni, difficilmente governabili a livello locale, ancor più sfuggenti a livello globale. Tuttavia, la mentalità europea si è posta precedentemente – pensiamo, tra l’altro, anche alla stagione del colonialismo – in modo dispotico e selezionatore nei confronti di altre culture, orientando gli strumenti di pensiero e quelli politici in senso unilateralmente europeo, nella convinzione che dove c’è Europa vi sia civiltà, non altrettanto al fuori dai suoi confini. Attraverso questa rimozione ha per lungo tempo governato il mondo. Così, dopo aver irresponsabilmente coltivato la propria egemonia, l’Europa si scopre ora francamente marginale, sia a livello politico, sia a livello economico, rischiando di divenire essa stessa terreno colonizzato.

Nata come sponda opposta all’Oriente sull’aperto mar Mediterraneo, eppure a quello unita geograficamente e miticamente, l’Europa si sviluppa plurale. È indiscutibile che, nel tentativo di affermare la propria autonomia nei confronti dell’Oriente, la scienza greca abbia impresso il suo marchio distintivo alla civiltà europea, tuttavia, nello stesso momento in cui i Greci hanno coscienza precisa dell’opposizione che esiste fra i due continenti ed i loro abitanti, attestano anche di essere debitori di altre civiltà: Babilonesi ed Egizi soprattutto. Mentre il greco ritiene di tenere in massima considerazione la libertà, ed è disposto a battersi per essa, quelli, sia pure colti e raffinati, mostrano, nella storiografia greca, i tratti di un’indolenza che li costringe ad una condizione servile nei confronti del potere istituito. Quanto a Erodoto, tutta quanta la Storia è impegnata nel tentativo di spiegare le cause dell’antagonismo che oppone Greci e Persiani. Da una parte, uomini liberi che non riconoscono altro padrone che le stesse leggi che hanno adottato, dall’altra, un tiranno onnipotente che domina le masse sedotte dall’interesse e dalla gloria. Non sono in questione solo gli ordinamenti politici. Le città greche sono governate in modo eterogeneo: in alcune comanda uno solo, in altre, l’oligarchia, in altre ancora il δεμος. Ovunque, l’armonia è assicurata dalla legge. Tuttavia, nel periodo della decadenza democratica della πολις, i greci si impegnano a formalizzare la distinzione tra tirannide e legittima signoria, preconizzando con felice intuito l’imminente fine della città Stato. In tal modo il conflitto con l’Oriente che genera l’Europa greca penetra nella civiltà europea. Le civiltà orientali, ebbero dunque il notevole merito di fecondare il pensiero greco lasciandogli in eredità, tra l’altro, l’immenso patrimonio delle tradizioni religiose. E tuttavia, in questo affrancamento d’una sponda del mare dall’altra qualcosa è stato rimosso andando perduto in quanto nemico e avversario, opposto al nuovo spirito del λογος che ora quasi dimentica d’esser ponte sospeso sull’aperto mare e s’irrigidisce in una figura che acquista in una direzione mentre perde dall’altra: l’affermazione del λογος cattura fin troppo l’orizzonte quasi confinandolo nella scatola cranica dell’uomo che ora incomincia a perdere un po’ di radici, e con esse di mondo. Il ponte sospeso sull’abisso ama ora esser solo ponte, tramite, medium, sebbene non del tutto dimentico delle sponde che esso ormai separa nel suo balzo sull’aperto mare. Innamorato del suo stesso balzare, il λογος si irrigidisce, come fosse puro atto, privo ormai di radici, e da questa morte, trae e libera infinite energie: liberata dall’ipoteca mondana e dall’urgenza del mondo, quasi interamente posta sulla piattaforma girevole del pensiero, la vena scientifica greca che intesse l’intera vicenda della civiltà europea ha consentito il proliferare della varietà in una misura tale da non avere paragone con nessuna altra civiltà prima e dopo di essa. Da ciò si distingue dalla scienza moderna, fondamentalmente intollerante. Così, greca è l’idea stessa di Europa, legata al regime democratico ed alle sue prime caratterizzazioni politiche. Greci sono i valori fondamentali che ancor oggi animano la vita occidentale: l’idea di natura, di ragione, di sapere, di libertà. E tuttavia essa è il frutto di un irrigidimento dello spirito su se stesso, una rimozione del mondo che l’ospita e lo radica fuor di sé. Un oblio di quell’Oriente che ne è Madre feconda oltre che avversario cui esibire la propria ostilità. Anche la geografia s’illanguidisce mentre Roma si sostituisce a Gerusalemme. Eppure, tramite la religione cristiana e il mito l’antica capitale dell’Est asiatico vive ancora a Roma, seminando la sua prole.

Tuttavia, diversamente dal mondo greco orientato ad Est, l’Impero Romano gravita per lo più sul Mediterraneo e il suo centro è l’Italia. La sua forma lascia un’impronta ancora percepibile in numerose città europee. Sotto la sua influenza, larghe falde del continente europeo vengono latinizzate, lasciando in eredità i tratti di una cultura superiore fondata sulla scrittura, sull’istituzione scolastica, su abitudini quotidiane ancora riconoscibili nel costume europeo. Tuttavia, la sua unità linguistica è solo apparente. Ben presto una frattura profonda divide l’Europa occidentale dall’Oriente greco. Inoltre, non si può tacere del fatto che il mondo latino non penetrò vistosamente nel centro del continente europeo, lasciando libero sfogo alla cultura germanica. Dal punto di vista cristiano, la latinizzazione comportò una prima riduzione: sotto la spinta degli eventi – ci riferiamo alla crisi marcionita (II sec.) – e grazie anche alla traduzione latina delle scritture, la polifonicità della rivelazione cristiana venne progressivamente riassorbita in un’unica prospettiva orientata a canonizzare un unico Dio autore dell’uno e dell’altro testamento. L’insistenza sull’unità delle scritture al di là della distinzione, e sull’origine divina delle scritture, al di là della loro radicazione storica, ha sortito un generale effetto di appiattimento, di astrazione e di formalizzazione che a tutt’oggi non è stato ancora degnamente riassorbito. Eppure, uno dei motivi che sospinse l’Europa entro i confini geografici mediterranei e cristiani, fu la pressione islamica. Così, si può anche dire che l’Europa sia stata spinta verso l’unità da una forza estranea alla sua cultura. L’Europa appare dunque una realtà complessa sin dalle sue origini, e nell’intero suo sviluppo non si può ricondurre alla matrice greca, né a quella cristiana, o latina, o germanica. E tuttavia, per lunghi secoli regnerà su di essa il monopolio cristiano della fede e del pensiero. In esso il λογοσ greco si muta in ordo, burocratizzandosi mentre acquista forma teologica l’apparato imperiale e giudiziario che tende a ridurre ulteriormente ad unità l’Europa geografica. Ma chi pensa di poter ricondurre l’Europa cristiana ad un unico blocco fatto di granito, piatto e privo di sfaccettature, sbaglia. L’impero si divide nel 395 tra Oriente ed Occidente. L’Europa cristiana è spezzata sin dal 1054 dallo scisma tra ortodossi e cattolici. Così, ad est, cultura e religione si uniformano agli ideali bizantini. Ivi regna il Basileus che detiene un potere assoluto ed esercita un dominio teocratico. L’Impero d’Occidente, invece, si frammenta dopo la morte di Carlo Magno. Né varranno i tentativi di riunificazione operati dal papa o dall’imperatore fin quando, con il concordato di Worms (1122) viene istituita la separazione dei due poteri, quello spirituale e quello temporale. Da queste frammentazioni nacque l’Europa dei moderni Stati nazionali.

Poniamo ora attenzione al periodo che va dalla caduta di Bisanzio (1453) alla pubblicazione del De rivolutionibus orbium cælestium (1543) di Copernico. Poco prima (1440) la portentosa invenzione di Gütemberg, la stampa, consente una circolazione inedita di idee e informazioni. Nel 1492 la scoperta del Nuovo Mondo apre prospettive inedite alla storia, che si avvia a presentare caratteristiche planetarie. L’intraprendenza della classe mercantile porta in seno un dinamismo che approfondisce la crisi dell’aspirazione cristiana alla perfectio. E poiché Lutero orienta la fede a ritroso nel tempo biblico, predestinandola all’inattualità, l’azione dell’uomo si distoglie dal cielo e si orienta verso la terra. Così, l’affermazione del capitalismo si intreccia con la scissione cristiana tra Riforma e Cattolicesimo. Ciò che contribuisce alla formazione dell’Europa moderna appare essere insieme anche ciò che la frammenta, nell’incessante tensione al futuro che la caratterizza. L’identità Europea è questo processo che tende irrinunciabilmente al “da farsi” in un futuro disponibile. Allora l’uomo europeo moderno si afferma come essere della mancanza e del desiderio proprio mentre prende coscienza di sé e del suo dominio sul nuovo mondo. Il logos moderno acquista ulteriormente forza per dispiegarsi nella sua forma totale: il sistema. Nato nell’ambito della Fisica della Cosmologia, il termine ormai equivale al pensiero approntandolo a identificarsi con la realtà tutta che ormai s’irrigidisce come fosse fatta di ferro e acciaio. Per quanto riguarda il cristianesimo, la nuova temperie culturale e politica lo vedeva aggrappato ad una forma ormai passata di società, troppo statica per una civiltà ormai febbrilmente occupata a darsi una nuova identità politica basata sull’idea di Stato nazionale, e un nuovo statuto culturale incentrato sull’uomo. D’altra parte, non dobbiamo pensare che il cristianesimo fosse già inattuale: esso aveva contribuito in modo formidabile all’evoluzione dell’Europa in senso moderno; sia in quanto la Chiesa finì per adottare la procedura giudiziaria latina della istruttoria, in luogo del diritto spontaneo del mondo germanico; sia in quanto essa accettò e favorì il culto dell’immagine, ferocemente contestato sia dai mussulmani che dagli ortodossi, inaugurando l’attenzione così tipicamente europea per i media e dunque per l’informazione; sia, infine, in quanto fornì la mentalità idonea ad apprezzare il lavoro inteso quale opera umana che contribuisce all’azione creatrice di Dio. Inoltre, il cristianesimo portò un contributo ideale inedito, sconosciuto al mondo antico: si tratta dei modelli ideali del santo e dell’uomo cortese che sostituirono quelli greci dell’eroe e dell’oratore. Furono piuttosto le difficoltà indotte dall’intolleranza ecclesiastica che segnarono la sorte del cristianesimo nell’Europa degli Stati nazionali moderni. Se guardiamo attentamente questa nuova forma politica ci dobbiamo rendere conto della sua ambiguità: retto da un potere centrale politico, amministrativo e militare, lo Stato nazionale liquida il potere papale — e con esso la cristianità — e regola il potere delle parti. La sua nascita è incerta, ma la sua affermazione si può collocare attorno al sec. XV, in Francia, Inghilterra e Spagna. Imponendo una regola a tutti, lo Stato moderno civilizza la società, il cui compito, ora, è di impedire che lo strapotere statale si faccia tirannia. Di diritto (Trattato di Augusta del 1555), lo Stato riconosce la religione come parte integrante della sua stessa esistenza; di fatto, la ragion di stato impone l’asservimento di questa a quello; ma dove c’è Stato, lì c’è anche religione. La nuova situazione impone la ripresa del termine “Europa” in misura direttamente proporzionale alla marginalizzazione della religione. O meglio, esso l’ingloba. L’Europa, infatti, organizza la propria κοινη culturale attorno ad un nuovo sapere scientifico i cui prodotti sono ora fruibili da larghi strati della popolazione. La diffusione dei benefici della tecnologia si produce di fatto attraverso le forme di un’economia sempre più internazionale, garantita da un diritto che afferma pretese universali. L’Europa degli illuministi è il simbolo della civiltà universale, cosmopolita. Essa unisce degli Stati divisi in guerre che la religione non può più evitare. In questo clima, ove l’ipoteca teologica ha concluso ormai il suo fascino, gli Stati assumono la funzione di regolare i conflitti arginando la diffusione delle guerre fra la popolazione civile. Di qui la necessità di regole universali capaci d’interpretare la nuova situazione politico-militare. Ma quando la differenza fra Stato e nazione verrà meno, le guerre diverranno totali e l’incremento tecnologico condurrà agli stermini di massa, conducendo il sistema al suo limite esterno.

Furono senza dubbio l’insopportabile arroganza del potere assoluto in cui si esprime l’istanza superiore della ragion di stato e la minaccia del nemico straniero imposta dalle guerre che devastano l’Europa dal XVI al XVIII secolo a condurre le nazioni allo spirito rivoluzionario. L’uomo del XVIII secolo è colui che non ha più alcun imperatore. L’impero, in quanto ordinamento delle diverse realtà politiche di cui era composto, costituiva la garanzia ideale dei loro reciproci rapporti. Esso era effettivamente, sebbene imperfettamente, la proibizione dell’assolutismo in quanto tale. Rappresentando un terzo fra le parti in causa, l’impero superava le opposizioni delle singole realtà escludendo l’usurpazione del potere all’interno di questo ordinamento. Perciò era il Sacro Romano Impero. La sua fine decretò l’inizio dell’assolutismo. Dapprima s’affermò il tipo politico assolutistico del principe: è questo il senso dell’affermazione di Luigi XIV, l’etat c’est moi! Essa dichiara la volontà del principe elevata a legge. In questo quadro, gli Stati nazionali si affermano sulla scena europea come divinità di un pantheon tra le quali sussiste un intricato contrasto di interessi e di potere, ma nessuna riesce ad imporre la propria egemonia. Le diverse ragion di stato impongono un bilanciamento dei poteri che realizza un gioco di alleanze costantemente in fibrillazione. Ma la sussistenza stessa degli Stati si alimenta di regole universali, del diritto delle genti ancora sottratte alle devastazioni, della prosperità della classe borghese. Così, l’Europa del secolo XVIII è il continente delle sovranità nazionali, delle guerre di dominio che essi intraprendono e dei trattati che stipulano per regolare il potere di ciascuno. Equilibrio e disordine coesistono. Correlativamente, l’affermazione dell’autonomia e della dignità individuali preparano culturalmente il terreno alla metamorfosi della sovranità. Attraverso la Rivoluzione, il popolo borghese diviene il soggetto della propria storia. Compare qui un nuovo tipo: il rivoluzionario assoluto che si arroga il compito di creare il diritto. Per esso, lo Stato assume i caratteri mitici della madrepatria in una commistione di mito e politica che induce una relazione mimetica fra l’individuo e la sua Patria. Amata per se stessa, fatta oggetto di una venerazione di sangue, la Patria viene compresa nei termini emotivi di un sacro ormai fuggito dalla religione, e perciò inselvatichito. Unendo il tempo con l’eterno, la madrepatria dispone di un potenziale inaudito capace di trasferire il sentimento religioso al suo interno stimolando l’identificazione del destino del singolo con il proprio. Così la relazione infantile che lega il singolo alla sua terra conduce al risveglio dei nazionalismi; e ciò che prima era deciso dal sovrano ora diviene responsabilità popolare e perciò coinvolge la massa. La situazione poté essere tenuta sotto controllo – dispoticamente e per un breve periodo – dalla Santa Alleanza (1815), il cui scopo era evidentemente impedire l’escalation della guerra interna. Da questo punto di vista, le regole resistono, sinché possono, alla tentazione espansionista, ma questa deve pur esprimersi perché l’enorme potenziale tecnologico e di risorse abbia senso. È la stagione della volontà di potenza: in cerca di più adeguati “spazi vitali”, le nazioni cercano all’esterno quel predominio che non osano imporre all’interno dei confini europei. L’Europa diviene allora un aggressore sistematico e feroce, e tale viene tuttora percepito dalle popolazioni aggredite. Essa ha in spregio ogni regola “civile”, ed ogni trattato diviene “carta straccia”. È il preludio della Grande Guerra, totale e mondiale, che coinvolge tutto e tutti nella devastazione suicida. Alla pace succede il caos di quelle regole e della logica delle alleanze che un tempo mantenevano l’equilibrio. La seconda guerra è, se possibile, più delirante e totale della prima e volge l’Europa alla decadenza, aprendo orizzonti inediti alle popolazioni a Est e ad Ovest dell’Europa. Il cambiamento provocato dai due conflitti mondiali fu radicale. Anzitutto concerne la posizione occupata dall’Europa nel mondo e quindi il destino delle sue popolazioni che cercano di aprirsi un varco nella generale incertezza delle cose. Stretta fra l’Est e l’Ovest, l’Europa si ripiega sui suoi confini originari. Ma Est e Ovest sono realtà complesse, e se da una parte schiacciano il vecchio continente tendendo a sovrapporvisi, l’Ovest è fatto di europei, e la loro penetrazione in Asia, nell’U.R.S.S. come nella Turchia, ed ora anche oltre la cortina di ferro, occidentalizza l’Oriente. In gioco ora non è più l’equilibrio delle potenze europee, bensì della coesistenza di enormi concentrazioni di potere a livello planetario. Tutto ciò che è nazionale appare sfuocato e come privo di senso, curiosamente invecchiato di fronte alla nuova prospettiva planetaria accelerata dall’immenso potere tecnologico. La legge di questo sommovimento sembra essere più una legge di sopravvivenza che una questione civile. L’inaudito potenziale bellico, capace di spazzare via l’intero orizzonte, significherebbe il suicidio della civiltà umana che si trova comunque di fronte alla terribile sfida ecologica aggravata dall’esaurimento e dalla devastazione delle risorse disponibili. E non pare esservi alternativa allo sviluppo: si tratta di tenere ben desta l’attenzione e di governare il processo in corso. Non vi è dubbio che il Primo Mondo sia stato un luogo bello in cui vivere, tuttavia, l’esplosione demografica, i pericoli dell’aggressività bellica favorita dall’enorme potenziale tecnologico, l’abnorme spinta integralista, le disuguaglianze ormai strutturali all’interno degli stessi sistemi economici anche avanzati, il problema ecologico, la brutalità del mercato, sono realtà che chiunque può ignorare solo a proprio rischio e pericolo. La pressione della globalizzazione sulla società civile alimenta l’esclusione sociale: deprime coloro che versano già in stato di necessità e rafforza le enormi concentrazioni di potere. L’incertezza di ciò che si riteneva essere un diritto a salvaguardia della dignità umana mira allo sradicamento delle persone in nome dell’efficienza e della produttività. È un fenomeno inevitabile, probabilmente, e forse non del tutto negativo. Tuttavia, il trionfo dei valori produttivi spinge l’uomo verso nuovi conflitti, in cui nessuno appartiene più a nulla, e il vuoto di rappresentanza politica appare correlativo all’annullamento morale.

Non vi è dubbio dunque, la portata dei rischi non facilita il successo delle soluzioni adottate. Ma l’Europa dispone di un patrimonio formidabile di idee e di valori. Anzitutto la sua cultura scientifica che la diffusione planetaria del cristianesimo ha finito per esportare al di fuori dei suoi confini. Si può dire, forse, che l’Europa è il suo destino civile. Ciò che ha legato il vecchio continente al movimento e alla metamorfosi è stata la sua cultura, grazie alla quale si è resa possibile una inaudita tolleranza di idee e principi che ha raffinato la nostra sensibilità per le differenze e le pluralità. D’altra parte, l’esito della vicenda europea mostra il rischio cui conduce la sottrazione della dimensione etica della civiltà. Il dominio della razionalità tecnico-strumentale nella vita pubblica finisce per nascondere la rilevanza delle questioni relative al senso dell’agire sociale. Ciò ha condotto alla paralisi del giudizio e ad una coscienza incerta e infelice, per la quale la libertà è agibile ormai solo come protesta per un senso impossibile. Di qui la riduzione della civiltà a regola e della cultura ad opinione. Ci si deve chiedere, infine, se la crisi della questione morale nel pensiero contemporaneo, vale a dire la riduzione della verità al senso, non sia altro che l’esito del progetto insito nel sapere stesso, e di quello moderno in particolare, di ricondurre il pensiero del fondamento a una evidenza univoca che, come tale, prescinde dal riferimento alla singolarità del soggetto, annullandolo. E più oltre, il riferimento della singolarità del soggetto al suo λογοσ, invece di coglierlo nella referenza alla porzione di mondo che esso abita come un microcosmo. A questo proposito, le correnti più avvedute della cultura contemporanea mostrano l’esigenza di riconsiderare la relazione della verità alla libertà in quanto essa è intrinsecamente legame al cosmo, evitando l’esito gnostico di un sapere sistematicamente autoreferenziale a fronte di una realtà tanto desiderata quanto perduta come un paradiso che fu. Per questa via, la questione religiosa torna ad essere essenziale per il pensiero stesso. Se la verità deve essere pensata come il fondamento della libertà, il sapere che le corrisponde non consiste nell’astrazione di cui la ragione è capace, bensì nel pensiero che riflette le condizioni del senso che, in quanto fondamento della libertà, deve essere singolare. Il sapere è dunque originariamente sintesi del soggetto con la verità in quanto fondamento della sua stessa singolarità. Analogamente, il conflitto che sostiene la cultura risiede nel fatto che, in quanto essa si ispira a determinati valori, accede all’universale sempre e solo nella forma del particolare. Se la loro relazione appare necessaria, ciò è dovuto alla complessità peculiare dell’attuale società. Il compito della riflessione consiste appunto nell’articolare e distinguere i livelli di elaborazione del senso per sfuggire all’annullamento che consegue ad una concezione meccanicistica del rapporto. Giustificando il rispettivo significato che le norme, i valori, i principi assumono per la libertà, la riflessione ricompone il senso dell’agire sociale che la fede s’incarica di rendere produttivo, nell’evidenza propria di ciascun livello, a favore della causa dell’uomo, senza omologare la propria verità con l’istanza culturale.

Ora, ciò che il cristianesimo consente di mettere a fuoco nell’Occidente tecno nichilista demondanizzato è un’estetica della scrittura che ha motivi per essere apprezzata come canone di un’esteriorità riuscita e paradigma della mediazione reale di un coinvolgimento pienamente umano pubblicamente messo al riparo dalla spinta narcisistica del desiderio, così che il pensiero riconosca nel lavorio del testo attestato un logos e un ethos materni. In altri termini, il rilievo di una scrittura all’altezza dell’anima perché innervata nel sensibile tanto quanto destinata spiritualmente in quanto testimone di un affetto che è originariamente legame di spirito e mondo che risorge solamente nella distanza discreta della lectio, acquistando al contempo ulteriori riserve etiche ed estetiche.

Seguiamo un poco ancora queste “ulteriori riserve” rese disponibili nell’intrigo posto dalla scrittura. Se la religione si interiorizza, le fa certo da contraltare l’oscena ostensione dell’esteriorità dei corpi, come se l’individuo che vive la liquidità globale dei vincoli dovesse buttare davanti a sé il corpo per insediare strategicamente se stesso quando le radici sono perdute. L’insediamento dell’esteriorità è l’altra faccia dell’anestesia che la disillusione del mondo ha da tempo allestito, lasciando al suolo le spoglie di una res extensa umana ormai umiliata. Questo è il senso della crudeltà sferrata contro il sensibile da un’intolleranza mossa dallo spirito contro il piano dell’immanenza. All’opacità grigia del mondo corrisponde una ratio che ormai è abituata a frequentare il mondo come sua immagine speculare. L’intrigo che la scrittura eleva a protesta è l’avamposto del processo spirituale e civile che si rivolta alla cosmesi sociale. La sua reazione è composta e misurata nel tempo a fronte dell’estetica del consumo collettivo e della catastrofe estetica scagliata contro ogni forma autentica di arte e di partecipazione etica. La scrittura assume allora la forma di un manifesto dello spirito che grida il proprio allarme per un effettivo, reale e duraturo legame sociale. Il vuoto deve esseri colmato attraverso smarcature, intercettando il logos affettivo del mondo attraverso legature dei sensi che devono perciò finalmente apparire quali sensi spirituali, restituendo dignità cognitiva alla sensibilità, proseguendo la strada indicata dal Mondo della Vita e dall’Essere nel Mondo. Questo sfondamento estetico in direzione dei sensi corporei quali figure effettive della coscienza che da il suo consenso spontaneo alle risonanze del mondo, è un riscatto di un patrimonio di paideia che appare largamente sottovalutato, volto a restituire profondità, ritmi, memorie, gesti, sensi all’educazione umana. Non senza riabilitare un ordo fra essi, perché nei sensi e nel sensibile s’iscrive già il logos. Questo intrigo in cui i sensi si danno in concerto con la coscienza, l’intessono, mostrano la sporgenza dell’una e degli altri, perché nessun senso è un’isola, quanto la coscienza non è una monade priva di fessure. Il loro è un sodalizio: il logos ha un telos affettivo quanto i sensi hanno un ordo. I loro legami non sono dispotici, ma affettivi. Richiedono assenso e consenso. Perciò le “ulteriori riserve” sono in definitiva le capacità di cogliere sintonie e risonanze, ma anche disperanti provocazioni all’anestesia del caos. Così, l’estetica è un contatto che assume un timbro che si dispone all’ascolto del fenomeno, più che alla sua rappresentazione. In fondo, non è in questione lo scoprire chi sia l’uomo – europeo, occidentale, o meno – bensì di scoprire cosa può un corpo (G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Verona 2007, 51). Questo è il surplus relativamente al guadagno moderno del pensiero della libertà: la sua interruzione sintetica nella forma corporea della verità. È appunto ciò che risiede appieno nella scrittura. Essa tenta di catturare i volti, i corpi, le espressioni, i luoghi, le forme, gli spazi, i silenzi che la parola viva e orale attesta nel suo pathos. L’esteriorità della scrittura, la sua coagulazione nel libro non sono solo una caduta nell’oggettività di una lettera morta. Anzi! In essa va colta l’attestazione di una cura autentica per l’altro che distogliendo lo sguardo da sé rende possibile e libera il campo per un incontro che liberi dal gioco degli specchi in cui l’altro viene totalmente risucchiato nella corrispondenza. A patto di sorprendere essendovi originariamente destinato, predisponendosi al legame, generandolo, senza predisporsi a catturare la preda violando l’ospitalità per autoaffermarsi. Questo significa una duplice presa di distanza. Il corpo a corpo del testo lo è in primo luogo se diparte da se stessi, immettendo nel legame sociale un’autentica originalità, incomparabile, perciò descrivendo una vita in perdita. Scegliendo di vivere oltre il registro della sua stolida sopravvivenza. Certo, scrivere vuol dire sempre morire, esporsi al lettore senza volto, anonimo, e dunque, perdersi senza possibilità di recuperarsi. Questo appunto è voler morire, accettando radicalmente il distacco da sé che suggella la qualità del vincolo sociale come dono. La scrittura è autentico esercizio di un perire meditato e accettato perché il libro risorga nello spazio della lettura d’altri. Morte senza risurrezione alcuna. Remissione dei debiti contratti e acquisiti. Appartiene alla scrittura, appunto, il ritrarsi per far posto all’altro, anche a un suo possibile rifiuto. Ma la scrittura è anche il legame che s’intrattiene con essa, decidendosi per una vita e un destino, sottraendosi all’illusione di poter essere tutto per non essere, in definitiva, nulla. Perciò la scrittura è generazione in due sensi: lo è nel senso della dedizione all’altro come nel senso della dedizione a sé. E tuttavia essa lo è anche in un terzo senso: in quanto sporge sulla realtà, essa la supera, rifiutandosi di descriverla, dando vita ad un corpo generato che diviene “parola pubblica” che si espone a infinite letture, cogliendo il rischio della libertà, fendendo la coltre dei luoghi comuni e della chiacchiera pur di attestare anche solo imperfettamente il proprio logos. Perciò la scrittura richiede un lettore attento che ne è il figlio generato dalla sua costola. Se essa è madre, lo è di molti figli, anche illegittimi. Ed in ogni caso, nella sua intenzione ad essi, la scrittura si compie in essi, come se potesse compirei solo nella loro universale ubiquità. Senza lettura, la scrittura è un idolo perduto. Attraverso di essa, un viaggio. A patto che il lettore intraprenda il percorso con tutto se stesso, anima e corpo, sollevando le gambe, mimando i passi, muovendo le labbra, agitando le braccia. In una parola, essendone attore. Prendendovi parte, il lettore non sta davanti al testo come fosse il suo oggetto, ma ne fa esperienza senza mai poterlo afferrare del tutto. E tuttavia nella lectio assumendo un ethos dei sensi, trasformando la lettura dell’occhio in quella della bocca e dell’orecchio perché la lettura è certo anzitutto concerto dei sensi e della coscienza, o non è.

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