Il Maestro
Ciò che la ricerca sulla storia di Giuseppe mi ha condotto a considerare è un fatto: si tratta del rovesciamento di ciò che la tradizione religiosa attesta come valore e compito della fede nel suo contrario. In un primo tempo, infatti, Israele considerò l’obbedienza e l’ascolto della Parola come un valore irrinunciabile, un giogo da indossare con fiducia e semplicità o con timore e tremore. In ogni caso, come un valore di cui rivestirsi. Il suo campione, Abramo, informava di sé una lunga teoria di eroi della fede, dai patriarchi a Salomone, il magnifico. Questo teorema si fondava sulla convinzione che il mondo fosse ordinato e giusto perché così voluto da Dio. La Legge ne era il corollario necessario e sufficiente. La benedizione di Giacobbe la convinzione più tenace. D’altra parte, nessuno vivrebbe un sol giorno senza notevoli difficoltà se non fosse guidato da questa tranquilla persuasione: di essere benedetto in un mondo di cui possa coglierne l’ordine implicito con una conoscenza empirica tratta dall’esperienza stessa. Ci fu un tempo, però, in cui l’obbedienza a Dio vacillò, insieme alle regole con cui pareva essere solidale. Allora, tutto ciò che un tempo appariva grande e magnifico si rivelò oscuro e privo di consistenza: l’ordine si mutò in disordine, la promessa in delusione, la giustizia in illusione, l’empietà in successo, la pietà in ipocrisia, la fortuna della regalità in ironica nudità, la presenza del Santo in distanza e assenza. In questo clima i temi della ricerca di ciò che è bene per l’uomo, dell’universale condizione umana, della capacità dell’intelletto umano di acquisire autonomamente le verità necessarie per condurre una vita buona, dei vantaggi attestati dal possesso della sapienza, della ricchezza e della felicità, cari alle dottrine tradizionali, sono ancora perseguiti dai saggi, ma con ben diverso esito e ben altra sicurezza. Così, accanto a Proverbi e alla Legge, che attestano la possibilità di individuare principi e norme che diano ordine alla vita umana in tutte le sue forme assicurando a tutti un patrimonio comune di riferimento coerente con quella tradizione che le famiglie hanno celebrato e consolidato per millenni, sorge un nuovo tipo religioso che non riesce più a connettere la sua esperienza con le conclusioni raggiunte dai saggi delle epoche precedenti, attestando così che con tutta probabilità si era scavato un solco profondo tra le credenze religiose tramandate per secoli e vita vissuta, tra la visione del mondo che la tradizione aveva consegnato all’uomo e ciò che egli sapeva vedere da sé. Lo stupore dell’uomo di fronte alla bellezza e all’ordine della natura e della storia così tipico di Genesi, Salmi, Proverbi o Siracide, cede il passo allo sconcerto di Qohelet di fronte a un cosmo disordinato e caotico. La questione non è se uno sia sorto dopo l’altro, il che è certo, bensì l’influenza che questo modo di vedere le cose ha avuto sulla narrazione dell’intera Scrittura, retrodatando se stesso sino alle soglie della creazione. Di questo voglio parlare intraprendendo un nuovo cammino interpretativo alla scuola di Qohelet, un maestro ebreo alla ricerca del senso della vita. D’altra parte, la tradizione non ha avuto dubbi circa l’appartenenza del testo al canone delle Scritture, semmai in questione è stata la sua collocazione. Dunque, è questione di cronologia all’interno dei testi, non di appartenenza. Per me, la questione non è se il Maestro sia stato un pessimista scettico guidato da una ragione ormai priva di fede per il quale Dio è sostanzialmente inafferrabile e distante. Nè mi sconvolgerebbe la sua “allarmante” novità rispetto al rapporto che esiste tra l’uomo e l’opera di Dio, per la quale l’uomo è radicalmente incapace di governare la vita sulla base di un ordine del mondo ormai spezzato e muto testimone di un dialogo impossibile tra la creatura e il creatore di modo che il destino dell’uomo ne risulta sostanzialmente determinato dall’alto e perciò incapace di sostenere quei valori che ormai è vano cercare nella vita in quanto tale, bensì solo in quanto donata da Dio. Che il pessimismo sia costituito, infatti, dalla lontananza da qualsiasi convincimento religioso circa la sensatezza del reale è tutto da dimostrare. Potrebbe essere vero il contrario. Nè, ancora, mi pare frutto incongruo della Scrittura la divulgazione ebraica di quella mesotes aristotelica che è anche l’invito di Orazio all’aurea mediocritas epicurea di cui Qohelet potrebbe essere il propugnatore ante litteram. Il fatto che a Qohelet siano affini le argomentazioni proprie dell’ellenismo epicureo e stoico non costituisce una prova a sfavore dell’autenticità della sua fede, a meno di non pensare che la fede debba per forza essere estranea al pensiero in generale e al pensiero ellenistico in particolare, cosa che la renderebbe per lo meno autistica e anaffettiva. Quanto poi al fatto che alcuni traggano dall’uso liturgico del testo in seno alla tradizione ebraica la conclusione che si tratterebbe di un inno alla gioia è cosa senza senso: gli uomini usano ogni parola senza nemmeno sapere bene perché, risponderebbe Qohelet. Non si vede in base a quale argomentazione dovrebbe essere l’uso di una cosa a darne il suo senso autentico a meno di non pensare che ciascun atto umano sia autentico in quanto tale. E tuttavia, è ben vero che l’uso rivela qualcosa di ciò che viene usato purché si consideri il giusto ordine di grandezza: non è l’uso liturgico a dirci il significato del testo, bensì il suo uso liturgico ne attesta la percezione in seno alla comunità credente. È invece il suo uso all’interno del canone che l’attesta come parte significativa dell’opera. A questo dobbiamo attenerci. In altri termini, dunque, non mi interessa il significato del testo, bensì ciò che esso opera in seno al libro in quanto sua parte. A mio modo di vedere la questione si pone in questi termini: esso opera una cesura rispetto alla tradizione, consentendo al lettore di riprendere l’opera in mano sulle basi di una fede riformata e nuova rispetto alla quale la tradizione si rivela illusoria e vuota. Essa costituisce, infatti, il contenuto e la forma della cultura che il libro esibisce, però, in una luce del tutto nuova. Non solo perché attraverso di esso occhieggia la cultura greca che l’intellighenzia ebraica e progressista del III secolo ammirava e scimmiottava perché espressione di una cultura dominante, bensì anche perché l’uomo che traluce in esso lascia intravvedere un’attenzione inedita al popolo, al suo idioma commerciale, agli stereotipi della cultura greca che da tempo s’imprimevano nell’immaginario e nelle vicende di Gerusalemme proprio come ai nostri giorni l’idioma inglese e la sua mentalità affiorano e permeano di sé il gergo culturale delle nostre intellighenzie, come, d’altra parte, il francese le penetrava nell’Ottocento. Il nostro testo, infatti, è sin nella stesura opera di critica al più alto stereotipo della Sapienza ebraica, vale a dire a Salomone, di cui assume la voce sin dall’esordio. Se, infatti, il libro di Giobbe mostra l’universalità della Sapienza attraverso le gesta sconvolgenti di un accusatore di Dio che non può essere ebreo; il Suo contestatore, invece, assume il volto del più grande e magnifico dei Re d’Israele: quel Salomone che viene definito come figlio di Davide nel momento stesso in cui protesta per il vuoto che vede intorno a sé. Non è Qohelet, infatti, a vedere tutto vuoto, ma quel Salomone campione di una Sapienza ebraica vinta e sconfitta sul piano culturale e religioso se non si ha il coraggio di innovare radicalmente se stessi! Per bocca di Qohelet, dunque, è la sapienza ebraica che giunge al compimento riflettendo su se stessa in base a quel nuovo rappresentato dall’ellenismo di cui si vuole appropriare e vincere sul piano intellettuale per non esserne vinta. Di fatto, furono la segregazione nazionale e la rivolta militare a tutelare l’identità nazionale ebraica, più che la graffiante e la realistica saggezza del nostro testo. Perciò, forse, rimane ancor oggi tanto incompreso e con lui la fede a cui ha dato forma. Tuttavia, esso ha indicato una via realistica e moderna alla fede già nel III secolo a. C., per la quale, probabilmente, Salomone non sarebbe tanto un esempio inaudito di saggezza, quanto un re malinconico e depresso, forse per via di quell’odioso fratricidio che l’ha insediato sul trono. E tuttavia, in questo ironico realismo la fede attesta se stessa come capace di una verità al di là delle nebbie della superstizione e della credulità giacché capace di una luce che le penetra squarciandone il velo dell’apparenza collocando così se stessa nel cuore di quei processi con cui l’uomo costruisce la propria libertà e afferma la propria identità dialogando con una tradizione che non intende più subire ma che costituisce pur sempre il proprio referente storico e culturale privilegiato. In questo senso Qohelet è pienamente moderno, vale a dire ancora persuaso che valga la pena intrattenere un dialogo serrato con quella tradizione che si intende superare. Il suo metro e la sua misura sono pur sempre quel riferimento storico tradizionale di cui si propone la riforma. In lui non alberga ancora il superamento stesso, bensì solo la sua volontà. Perciò la sua impresa appare allo stesso tempo temeraria quanto velleitaria, come è il destino, forse, di qualsiasi tentativo di riforma dall’interno di un sistema culturale di valori.
È chiaro, dunque, qual è il mio interesse in una ricerca su Qohelet: interrogare la storia sulla capacità di riforma che coltiva un organismo complesso quale la religione in generale e la religione ebraico cristiana in particolare. In tal modo dovrebbe risultare chiaro che la religione non è un blocco monolitico e astruso, bensì è in se stessa un sistema complesso e sfaccettato che in alcun modo si può ridurre a questa o quella posizione storica e dottrinale e che, tuttavia, ha in sé un orientamento che la predispone a una peculiare dinamica. D’altra parte, osserveremo che la Riforma religiosa di cui Qohelet è il testimone e il campione non è perciò stesso da ascrivere a un pessimismo radicale o addirittura a una mancanza di fede. Bensì occorrerà ammettere che lo spirito critico appartiene essenzialmente alla fede che in alcun modo può essere scambiata perciò con una credulità ingenua e acritica. La fede, infatti, attesta entrambe le posizioni sull’esistenza intesa ora come ordine ora come disordine. La successione va dall’una all’altra ma l’una non è senza l’altra, necessariamente. È questo il senso dell’inserimento dell’opera del nostro maestro in seno alla tradizione canonica: essa attesta che una religione esclusivamente fondata sulla Legge non ha alcun senso e che l’unica religione possibile è quella fondata sul timor di Dio. Cosa questo significhi per Qohelet e per l’intero testo è cosa ancora da chiarirsi e tuttavia la sfida è posta per lui e per noi.
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N.B. I testi di questa ricerca sono pubblicati ancora in forma di bozza
Bibliografia minima:
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N. Lohfink, Qohelet, Brescia 1997
P. Beauchamp, L’uno e l’altro testamento. Saggio di lettura, Brescia 1985
F. Piotti, Qohelet, La ricerca del senso della vita, Brescia 2012
G. Ravasi, Qohelet, Torino 1988
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G. Von Rad, La sapienza in Israele, Genova 1990
P. Beretta, Cinque Meghillot, Torino 2008
L. Di Fonzo, Ecclesiaste, Torino 1967
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F. Festorazzi, Riflessione sapienziale, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, Vol 3, Torino 1977
AA. VV., La rivelazione attestata. La bibbia fra testo e teologia, Milano 1998
AA. VV., Rivisitare il compimento. Le scritture d’Israele e la loro normatività secondo il Nuovo Testamento, Milano 2006
AA. VV., Scrittura e memoria canonica, Milano 2007
P. Sacchi, Qoelet, Milano 2005
W. P. Brown, Qohelet, Torino 2012
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