Al di là dell’individualismo borghese

Scritto da F. Bertoglio

Il 25 Gen 2013

Al di là dell’individualismo borghese

Che ogni esperienza autenticamente umana sia comunque posta sotto il segno dell’autonomia del soggetto che misura sulla sua capacità, come su una legge interiore, ogni eventualità storica, appare già, nella nuova stagione romantica, una affermazione debitrice delle condizioni storiche che l’hanno favorita. Hegel, infatti, è convinto che la filosofia dell’Illuminismo che culmina in Kant abbia prodotto un idolo: non volendo superare il centro prospettico dell’intelletto finito, essa ha finito per assolutizzarlo. Questo è anche l’esito contraddittorio della scelta kantiana di riferire l’unità dell’organismo vivente alla causalità tecnica. Alla luce di questa critica si comprende meglio la posizione espressa negli scritti teologici giovanili: da una parte, Hegel condivide la tesi kantiana per cui la religione è intesa come la potenza capace di avanzare e di far valere i diritti che la ragione ha concesso. Dall’altra, essa può costituire una tale potenza solo quando compenetri lo spirito e i costumi di un popolo, essendo presente nelle istituzioni dello Stato e nella pratica civile. Così, la posizione degli Scritti teologici contesta sia la religione razionale degli illuministi, sia l’ortodossia dogmatica, in quanto considerati prodotti complementari e unilaterali della vicenda storica recente. La pura religione razionale rappresenta, infatti , un’astrazione non meno della credenza feticista. Isolata dalle istituzioni e dal culto popolare, la religione razionale conduce solo ad una religione privata. D’altra parte, solo una morale contesta di una religione del cuore potrebbe intessere la vita pubblica. Perciò l’Illuminismo non è che l’ortodossia rovesciata: entrambe sorgono «da qualcosa che non siamo e che dobbiamo essere». Così, la religione e l’istituzione pubblica, irrigidite in se stesse, sono divenute un potere estraneo. Non lo erano, ma lo sono divenute: esse si sono ridotte ad esigere un’obbedienza cieca e meccanica. Ma che la positività sia tale, è possibile riconoscerlo solo a partire da una natura che ha acquistato nuova consapevolezza di sé, ed ora rifiuti di porla in un Essere Ultrapotente. Perciò la positività è già l’indizio di un suo superamento. Così, la positività della religione moderna smaschera l’unilateralità della ragione. Entrambe non sono che fenomeni della necessità del tempo ove l’uomo viene fatto oggetto ed oppresso, oppure opprime a sua volta la natura. Ciò, mentre pone in discussione il principio formale della libertà attestato nell’epoca moderna indica insieme il compito che la nuova stagione si deve assumere: restituirlo a partire dalla storicità, riconoscendo nella realtà sociale una grandezza storica propria, e perciò strutturata secondo dinamiche e processi che mediano la libertà dei singoli, verso cui devono essere determinati gli stessi compiti delle istituzioni politiche. In ciò sta il merito permanente della riflessione hegeliana sulla società civile e lo Stato, capace di superare l’idea astratta di libertà cui si aggiungerebbe la sua realizzazione esteriore nelle forme della relazione sociale. D’altra parte, se la concezione hegeliana della società civile consente di superare l’affermazione dello Stato quale semplice garante del diritto privato, la sua iscrizione nella filosofia dell’assoluto finisce per subordinare la libertà del singolo a una istanza che possiede finalità proprie, e dunque identificare il fondamento assoluto della storia universale con le sue figure concrete. Oltre tutto, il rimedio che essa offre ai fenomeni di decadenza della civiltà moderna appare comunque insufficiente. Se la riflessione filosofica che si diparte dal principio della soggettività può comprendere e superare la modernità dall’interno, a partire dal suo stesso principio, mostrandosi come la potenza dell’unificazione, ciò che essa procura non è che una riconciliazione parziale, priva dell’irriducibilità del positivo. Perciò i suoi sono santuari appartati, ed i suoi sacerdoti, divenuti filosofi, sono abbandonati a se stessi dal popolo.

L’esigenza della mediazione era universalmente sentita in quel tempo. Alla concezione individualistica e liberale dei rapporti tra individuo e società appartiene infatti la convinzione del carattere “naturale” della società primitiva cui corrisponde la distinzione fra lo Stato e la società come realtà rispettivamente convenzionale e naturale. Alla radice agisce il pregiudizio illuminista che caratterizza l’individuo come assoluta origine della realtà sociale, rifiutando di riconoscere che quella medesima coscienza individuale è plasmata dalla tradizione storica collettiva, dal costume, dalle consuetudini, dalle strutture economiche e produttive. Il merito decisivo del pensiero di Hegel sta nell’avere proposto una sintesi delle due istanze mediante una ripresa del concetto di ragione ritenuto capace di recuperare l’unità fra teoria e pratica, certezza della ragione e trascendenza di Dio, società e individuo, uomo e natura, attraverso lo strumento della dialettica. Il motto dell’illuminismo: Abbi il coraggio di servirti del tuo stesso intelletto, viene approfondito. Nessun intelletto può essere pienamente credibile se chiude gli occhi di fronte alla storia, e a Dio. La questione originaria non è l’interrogativo sulla pensabilità di un dio esteriore, anzi, occorre piuttosto liberarsi dall’idea di quel dio che si contrappone alla ragione come ciò che deve essere negato. La questione è, allora, pensare la ragione e Dio stesso in termini storici, vale a dire anche contraddittori, relativi: Dio diviene nel divenire della coscienza, cioè nella storia. L’insicurezza illuminista viene superata nel momento in cui la ragione e tutti i suoi sinonimi sono essenzialmente vita, movimento e processo, possibilità. Allora l’essere è il possibile, vale a dire: libertà. Quanto alla comprensione hegeliana della società civile, deve ancora essere precisata all’interno della dialettica del lavoro che realizza la conciliazione di spirito e natura, e nel superamento del dualismo individuo-società operato nell’esperienza sociale.

La dialettica del lavoro

Mentre l’animale non lavora col sudore della fronte, bensì soddisfa immediatamente i propri bisogni nella natura, il lavoro dell’uomo è un mezzo posto tra l’uomo e il suo mondo. Attraverso il lavoro l’uomo non nega la natura, piuttosto la rielabora, formandola. Fuggendo l’impulso immediato che caratterizza l’animale, il quale toglie di mezzo il bisogno immediato divorando l’oggetto, l’uomo realizza nello strumento qualcosa di stabile, evitando la schiavitù di ricominciare ogni volta da capo. Lavorare significa dunque produrre uno strumento che toglie l’uomo dal corto circuito posto dalla soddisfazione di questo bisogno attraverso questo oggetto. Allora, ciò che caratterizza lo strumento come tale è la sua relativa autonomia rispetto al bisogno che l’ha prodotto, e l’azione umana appare così essenzialmente ambigua: per un lato, da essa risultano cose diverse da ciò che l’uomo si attende intenzionalmente; per altro verso, lo strumento, in quanto universale, è l’opera ormai sussistente come oggetto di fronte all’uomo. Certo, lo strumento è ancora una cosa inerte nelle mani dell’uomo, quasi un prolungamento dei suoi arti, divenuti “cose”. Solo la macchina possiede la capacità inedita di lavorare per l’uomo, ma essa si rivale sull’uomo, sostituendolo; in quanto essa è qualcosa ed insieme possiede in alto grado autonomia, asservisce l’uomo a sé, assegnandogli compiti che ne alienano l’attività creatrice.

Così la stessa indipendenza dell’opera umana dal bisogno individuale che l’ha prodotta interrompe la connessione fra il lavoro e il bisogno individuali su un altro piano: essa ora è tanto più inafferrabile in quanto il lavoro è l’astrazione dai propri bisogni per collaborare alla soddisfazione dei bisogni degli altri. Il valore del lavoro risiede allora nella sua capacità di permettere, attraverso la sua reciproca correlazione con tutti i lavori, la soddisfazione anche dei propri bisogni. Così il lavoro assume nuove caratteristiche: se da una parte esso si qualifica per una specializzazione sempre più spinta accompagnata da una maggiore semplicità delle operazioni che esso richiede al lavoratore, dall’altra, inserito nel sistema, diviene, per così dire, più complicato, in quanto soddisfa il bisogno solo nell’infinita coimplicazione di tutti gli altri bisogni. In ogni caso, se anche deve accadere che l’uomo si riappropri dell’opera in quanto elemento di sé che concorre alla plasmazione della natura, l’argomentazione hegeliana finisce per scalzare la tesi liberale circa l’armonia naturale degli arbitri individuali.

La dialettica fra individuo e società

Ciò che il giovane Hegel condivideva con Schelling e Hölderlin era l’ammirazione ideale per l’antica greca, in cui l’etico e il politico apparivano coincidenti, e il singolo si realizzava nell’opera comune. Socrate, che viveva in uno Stato repubblicano, dove ogni cittadino parlava liberamente con l’altro, ma dove una sua maniera urbana nei rapporti faceva parte del ceto popolare più umile, abbordava la gente nella conversazione, nel modo più schietto al mondo. Senza il tono didattico, senza l’aria di voler insegnare, cominciava una conversazione qualunque e portava nel modo più fine ad una dottrina che si offriva da sé e che anche ad una Diotima poteva apparire non importuna. I giudei, invece, erano già abituati dal tempo dei loro antenati, ad essere arringati in un modo rozzo; già nelle sinagoghe erano, i loro orecchi, abituati alle prediche morali e ad un diretto tono di ammaestramento. In questo periodo, Hegel è convinto della incapacità del cristianesimo a operare felicemente nella storia — e, a dire il vero, in questo giudizio, Hegel più tardi accomunerà il cristianesimo alla “miseria tedesca”. Considerato come un principio di scissione, Dio è soltanto cosa, vale a dire un dio posto oggettivamente al di fuori dell’uomo e quindi irriducibilmente alternativo rispetto al bene comune dell’umanità. Diversamente da Gesù, Socrate avrebbe compreso come il bene comune è innato nell’uomo, e che pertanto non può essere il frutto di un’imposizione esterna, né derivato da un principio esteriore, ma solo risvegliato in una coscienza assopita. Oggetto di una amore alienante, l’idea di Dio opera una frattura nell’individuo che presume di potere trovare salvezza nel suo rapporto immediato con Dio, al di fuori di ogni mediazione sociale. Il cristianesimo è dunque una religione privata, diversamente dalla pretesa politica con cui fu interpretata dai discepoli che ne travisarono l’originaria disposizione al fine di produrre una religione del successo politico, e quindi dell’intolleranza e del dominio, al riparo della potenza della verità divina. Per questa via, esplode in tutta la sua crudezza la scissione illuminista fra il Cristo della fede e il Gesù della storia. Il Cristo, di fronte alla tendenza ebraica all’alienazione della morale individuale nella religione ecclesiastica, non avrebbe potuto fare altrimenti, per rendersi credibile ai suoi stessi discepoli, che affermare la sua pretesa dipendenza dal Padre celeste. La deificazione di Gesù è quindi in certo modo opera di Gesù stesso, costretto a richiedere la fede nella sua persona, dalla necessità di trovare credito presso i discepoli; così che l’originaria tensione morale del cristianesimo si tramutò nella fede nei comandi di Gesù, perdendo il criterio interno della loro necessità. Allora il cristianesimo è già nella sua genesi una dottrina contraddittoria, per la quale la morale è possibile solo come eccezione. Ma ciò è a sua volta la comprensione di una morale da schiavi peculiare allo spirito ebraico, vista a partire dalla morale spontanea del mondo classico, verso la quale Hegel prova profonda ammirazione. A partire da questa considerazione, Hegel può tratteggiare una storia dell’Occidente la cui decadenza coincide con l’affermazione dell’individualismo cristiano a fronte del senso dello Stato di greci e romani. Ciò che giustificava il nostro interesse per il singolo era precisamente Gesù Cristo; ma in tal modo, la fede era per lo più il considerare estraneo solo ciò che era degno, trattenendo per noi tutto il male. Nella promozione dell’uomo sta il guadagno irrinunciabile dell’epoca moderna e la sua nuova consapevolezza che, al tempo stesso, definisce polemicamente i rapporti fra la fede e la civiltà negli ultimi secoli. Solo successivamente, la posizione di Hegel circa il valore complessivo del cristianesimo si muta in apprezzamento. Si trattava allora di un programma rivoluzionario non inscrivibile nella sola realtà politico-sociale, bensì capace di investire tutti i campi della vita, la cui parola d’ordine era “Regno di Dio”. In questa nuova prospettiva, il cristianesimo viene considerato portatore di valori essenziali della coscienza individuale: anzitutto, la libertà. La questione hegeliana si pone allora come ripresa della positività del cristianesimo, già oggetto dell’indagine kantiana più matura, ritenuta essere in grado di operare non solo una rivoluzione del costume politico, bensì anche una conversione dello Spirito. In effetti, è proprio l’emergere della considerazione cristiana per l’individuo nella sua irriducibile singolarità a porre inevitabilmente la questione della sua emergenza rispetto alla società classica, organizzata politicamente in modo tale da ricondurre l’individuo alla società stessa. La polis greca appare ora ad Hegel come incapace di distinguere ciò che è proprio dell’individuo da ciò che è dovuto alla società; in realtà, però, la distinzione sussiste solo in quanto essa è colta dalla libertà dell’individuo che si percepisce finalmente quale soggetto irriducibile alla volontà generale. Nasce dunque la concezione individualistica della società fondata sulla consapevolezza dei diritti di ciascuno, rispetto ai quali ogni istituzione sociale appare inadeguata, se non oppressiva. In questa prospettiva, lo Stato non ha altro che una funzione regolatrice degli egoismi individuali, né è pensabile una comune volontà a suo fondamento. Ma la rappresentazione di sé come borghese propria dell’uomo moderno, non è altro che il corrispettivo di una coscienza incompleta, posta a partire dal bisogno naturale. Accanto a ciò, affinché lo stesso individuo sia propriamente persona, occorre che esso si concepisca anche come cittadino di uno Stato che civilizza l’astratta libertà dei singoli, incapace di inserirsi nella prospettiva densa di significato offerta dalle relazioni sociali quali si stabiliscono al di là delle intenzioni individuali: questo è appunto lo Stato che realizza l’istanza dell’eticità, ossia la riconciliazione dell’assolutezza individuale con la sua opera. Il riassorbimento della società civile nello Stato etico, soggetto assoluto della storia che realizza il superamento del borghese in cittadino, è connesso alla concezione hegeliana dell’Assoluto come risultato del processo storico. Il borghese, in quanto soggetto individuale spinto dal bisogno di soddisfare i propri interessi, descrive la condizione moderna della società civile che prescinde dall’istituzione politica. In quanto tale, tuttavia, la società civile è in sistema strutturato a prescindere dalla libera determinazione di ciascuno. Ognuno infatti, in quanto inserito nell’agire collettivo del sistema, produce più di quanto intende fare consapevolmente. Il compito del cittadino è dunque così assegnato: si tratta di ricomprendere le strutture della società civile assumendosene la responsabilità nell’agire collettivo commisurato ai criteri giuridici, civili, politici, che, presenti al senso comune, formulano la valutazione della società stessa. Ma poiché il borghese valuta comunque il proprio agire all’interno delle norme del diritto privato, possiede già una sua coscienza politica che trascende i suoi stessi interessi privati. D’altra parte, il bene comune della società civile non può essere considerato a partire da una alternativa che esso porrebbe ai diritto del singolo, bensì deve realizzare quella stessa coscienza privata a partire dalla sua comprensione politica. In questo senso, lo Stato si assume la responsabilità ultima delle strutture civili.

Il merito indiscutibile della prospettiva hegeliana consiste dunque nella riformulazione del pensiero della trascendenza implicato nel problema posto, nella nuova situazione storica, dalla mediazione civile del senso di cui l’uomo non può che appropriarsi nelle forme della libertà, e che tuttavia non costituisce la libertà come un suo prodotto. In ciò consiste la contestazione più radicale della metafisica dell’identità che ha prodotto la separazione finito-infinito. La storicità caratterizza in radice l’originario, e non si colloca accanto ad esso. D’altra parte, la fenomenologia dell’esperienza sociale, poiché è ricondotta nel quadro ideale del sapere assoluto su un piano che trascende ogni opposizione, rivela come presupposto il principio che l’interpreta: se infatti non è possibile produrre l’unità della civiltà a partire da una interrogazione trascendentale, perché questa è solo astratta, e se non è possibile alcuna verificazione a partire dalle rappresentazioni, perché queste sono inadeguate per rapporto al principio che le unifica, il principio speculativo è il presupposto che si pone al termine dell’interrogazione fenomenologica come il suo criterio trascendente. Ciò che risulta dalla fenomenologia è appunto il carattere di presupposto del principio stesso, che in alcun modo può essere dedotto trascendentalmente, né mostrato nell’esecuzione del processo fenomenologico, bensì solo presupposto. Allora, il problema della civiltà non può essere risolto nei suoi principi, precisamente perché esso è imposto dalla nuova situazione storica, e dunque quegli stessi principi non sono comprensibili che nel quadro di quell’esperienza di cui restituiscono la verità. Tuttavia, al di là dell’elevazione dello Stato a soggetto assoluto della storia dotato di una finalità propria, capace di determinare la libertà stessa, la riflessione hegeliana consente di evitare una concezione statica della relazione tra la società civile e l’istituzione politica, in favore di una visione dinamica del loro reciproco rapporto.

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